KABUL DIETRO L'ANGOLO

"Io vengo come un ladro di notte, la mia spada sguainata in mano, e da ladro che sono... io dico: dai la tua borsa, dai! birichino, o ti taglio la gola... Io dico: dalla ai pezzenti, ai ladri, alle puttane, ai borseggiatori che sono carne della tua carne e che ben ti valgono, loro che sono pronti a morire di fame in prigioni pestilenziali e in segrete immonde... Abbiate ogni cosa in comune, sennò il flagello di Dio si abbatterà su tutto quello che avete per putrefarlo e consumarlo."
Abiezer Coppe

I fuochi della contraerea illuminano la notte di Kabul. eppure, nessuna guerra è scoppiata né oggi né l'11 settembre scorso, giorno della demolizione delle Torri Gemelle di New York e di un buon pezzo di Pentagono. Questa guerra non può scoppiare ora in Afghanistan per il solo, valido, motivo che è già scoppiata da tempo: sono anni che il mondo intero vive uno stato di guerra permanente.
Non abbiamo voluto vedere quanto vicini a noi erano il Ruanda e il Kosovo, la Somalia e la Bosnia, l'Algeria e la Macedonia. Ma i boeing dell'11 settembre hanno portato Jalalabad, Baghdad e Gerico fin nel cuore delle nostre città. Nessuno può più ignorare, dunque, la cancrena planetaria che non accenna a terminare, figlia prediletta della modernità, dell'era tecnologica.
Il sistema industriale ha avvelenato la terra, rendendola sterile; l'apertura dei mercati mondiali ha mandato in rovina il mondo contadino; le ristrutturazioni industriali hanno smantellato i vecchi apparati produttivi; le necessità strategiche e geopolitiche determinate dal controllo delle risorse hanno scatenato conflitti interminabili - il capitale, forte delle immense possibilità che gli stanno fornendo le innovazioni tecnologiche, ha dissolto in buona parte del globo ogni possibilità di autonomia, ogni forma passata di comunità. Alle nostre latitudini, questo stesso processo ha partorito la precarietà diffusa che solo da qualche anno stiamo assaporando, l'abbandono delle vecchie certezze e delle garanzie cui eravamo abituati. Il capitale, stravolgendo le condizioni di vita degli sfruttati di tutto il pianeta ne ha appianato i saperi pratici, le capacità autonome di procacciarsi l'esistenza. Dove ancora si sopravvive, i mezzi di sussistenza sono solo appendici di un sistema tecnologico che nessuno sfruttato può comprendere né sognare di controllare: nessuno sa più quello che fa, nessuno sa più fare niente. Addio, allora, ad ogni sentire comune dei poveri, ad ogni identificazione collettiva, addio al sogno di impadronirsi di questo mondo cacciandone i padroni.
E' così che, da venti anni a questa parte, il pianeta assomiglia sempre di più ad un campo profughi. Si fugge dai conflitti o dal deserto, dalla povertà o dalla dittatura; si fugge da un mondo che non si riconosce più. I vecchi modi di vivere, di stare assieme, sono irrimediabilmente scomparsi e nulla si intravede all'orizzonte. Rimangono solo l'odio e la paura, che si accumulano ogni giorno di più e che stentano a trovare un obiettivo, un nemico da combattere. E' per questo che - dove larvata dove dichiarata - la guerra civile era già scoppiata, ovunque.
Ad ognuno il suo, allora, in questa fiera macabra che celebra la decomposizione di un intero pianeta. Guidati dai propri padroni, gli sfruttati jugoslavi si sono massacrati per anni tra di loro, convinti com'erano che i nemici fossero i loro vecchi vicini di casa. Non tanto diversamente hanno agito i poveri della Somalia o del Ruanda.
Ora, è l'immensa polveriera del mondo islamico che sta esplodendo. I poveri, laggiù, hanno tutta l'intenzione e tutta la determinazione di presentare il conto per questi anni di sofferenza. Privati di ogni legame sociale concreto - a parte la precarietà e la paura -, molti sovrappongono alla propria rabbia le parole dell'unico sentire comune che viene proposto loro, quello religioso. L'individuazione di un nemico collettivo li affratella al di là di ogni frontiera e di ogni divisione, l'epopea della lotta contro il Male riempie di significato la Storia - racconta di una promessa futura e dà un senso alle tribolazioni passate. E' per questo che muovono guerra all'occidente intero e non, invece, ai responsabili precisi della propria oppressione: i padroni e i governi, di levante e di ponente.
Non sappiamo, quando leggerete queste poche righe, che ne sarà dell'Afghanistan o del Pakistan, non sappiamo che ne sarà della Palestina. Le bombe su Kabul precipitano gli eventi, incanalano sempre di più la rivolta del mondo islamico nei sentieri angusti della guerra di religione. Le bombe su Kabul non fanno strage solo di civili afghani, non muovono soltanto altre ondate di profughi, non incendiano soltanto l'oriente: le bombe su Kabul cascano anche sulle nostre teste, danno finalmente un senso alla nostra paura del futuro, mettono ordine nel vuoto creato dalla precarietà sociale di questi anni. L'ipocrita retorica antiterrorista dei governi occidentali ci terrorizza e, nello stesso tempo, dà una risposta al nostro terrore, ci regala un nemico nuovo contro il quale combattere: gli sfruttati del mondo islamico, che siano in Afghanistan o in Italia, e non la società capitalista, come stava cominciando ad emergere nei conflitti sociali. Non è uno scontro tra civiltà, dunque, quello che si sta combattendo. E' la realizzazione della civiltà del capitale, il suo frutto più maturo - putrefazione, morte, guerra tra poveri.
Nessuna parola di pace ha più senso, non c'è mediazione possibile quando la disperazione dei poveri sfonda le porte di un mondo che cade a pezzi. Alle bombe su Kabul possiamo opporre solo l'attacco di classe: liberare l'odio che cova e scagliarlo contro i responsabili dell'oppressione nostra e dei poveri del mondo. Identificare con precisione il nemico comune - i padroni, i governi, la ragnatela tecnologica e produttiva - è la prima forma concreta di solidarietà verso i bombardati, verso i profughi. Attaccarlo è l'unico messaggio di fratellanza che possiamo inviare agli sfruttati del mondo, l'unico strumento che abbiamo per trasformare la guerra tra poveri che sta per incendiare il pianeta in una guerra di liberazione dallo sfruttamento e dall'autorità.

Stranieri Ovunque
10 ottobre 2001