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SENTIRE LE VOCI
guida all'ascolto
INDICE 1.Prologo 3.Dialogo 5.Bibliografia
  2.Monologo 4.Epilogo

E P I L O G O

Don Juan rispose che le alternative umane sono tutto ciò che siamo capaci di scegliere, come persone. Hanno a che fare con il livello del nostro raggio d’azione quotidiano, il conosciuto, e pertanto sono piuttosto limitate in numero e portata. Le possibilità umane, d’altro lato, appartengono all’ignoto. Non sono quello che noi siamo capaci di scegliere come persone, ma quello che siamo capaci di conseguire come esseri umani.

(C. CASTANEDA)

 

Spero di essere riuscito a mostrare che il sentire voci può essere sensatamente considerata una possibilità umana, inscritta nel nostro patrimonio culturale e genetico. Qualcosa, insomma, che dovremmo imparare a conoscere piuttosto che a temere, a gestire piuttosto che a  negare.

Anche se la psichiatria conferma la nostra presunzione di non avere responsabilità nè parte nel determinare questa esperienza, resta il fatto che ci troviamo qui di fronte non ad un processo, ma ad una relazione. Il che vuol dire che l’evoluzione e la natura di questo rapporto fra uditore e voce non è determinato biochimicamente, ma è influenzato, socialmente e psicologicamente, dal carattere di entrambi, dalla loro sensibilità, dai loro desideri... e, non ultimo, dall’ambiente umano in cui questa loro relazione si svolge.

In altre parole, se possiamo nutrire dei dubbi circa l’esistenza oggettiva delle voci, non possiamo negare l’esistenza di una relazione con loro. Gli esempi di dialogo mostrati in queste pagine, sembrano dimostrare ciò.

Perchè un’esperienza sia reale, o produca degli effetti sulla realtà, del resto, è sufficiente che essa sia considerata tale da chi la sperimenta. E’ un po' la storia della psichiatria che agisce sulla realtà fisica e psichica di milioni di persone, sulla base di un’idea di cui non ha mai dimostrato l’esistenza oggettiva. La malattia mentale è considerata un fatto tanto ovvio e reale dal convincerci ad investire ingenti risorse per costruire luoghi di cura, sperimentare terapie, formare il personale... eppure essa, come ha mostrato più che sensatamente Thomas SZASZ, scientificamente  non esiste.

La definizione malattia mentale non indica niente di esistente in natura, né dentro né fuori di noi, essa è una fede o una convinzione che risponde a necessità collettive di porre sotto controllo esperienze che sfuggono al nostro ordine sociale e mentale. La nostra fede nella malattia mentale, non è dissimile, nella sostanza, dalla credenza di alcuni popoli nell’origine divina dei fulmini, delle maree, delle eclissi solari e di altri fatti visibili. Nasce dalla stessa ignoranza e dalla stessa paura.

La questione dell’esistenza oggettiva delle voci, allora, forse è un falso problema. Ma, come sopra, che lo sia o meno, esso ci coinvolge, ci mette in crisi e richiede una risposta. Il fatto che possiamo ritenere illusorio il problema che ci si pone, non toglie niente all’urgenza di risolverlo o alla paura di sbagliare. Se una persona non esce di casa perchè sente qualcuno in strada che lo minaccia di morte, possiamo giungere alla conclusione che si sbaglia perchè non sentiamo, né vediamo, nessuno in strada, ma non dovremmo mai negare il suo terrore. Non è né sensato, né umano, né tantomeno questo modo di fare può essere definito aiuto o, peggio ancora, terapia.

Ma proviamo ad affrontare la questione.

Ogni voce ha identità, carattere e finalità individuali e, quindi, uniche ed irripetibili. E’ probabilmente scorretto classificarle attraverso categorie, ma ci serve per riuscire a orientarci all’interno di un mondo in cui le nostre capacità razionali e le nostre conoscenze sulla realtà valgono poco.

Non amo le classificazioni che dividono le voci in buone e cattive, maschili e femminili, dall’alto e dal basso... Questi giudizi e osservazioni fanno parte della relazione e della storia di rapporto di ciascuno con le proprie voci. Ciò che mi appare più fondante per comprendere questa esperienza sta da una parte nel definire la natura del loro essere, dall’altra i modi della loro comunicazione. In altre parole si tratta di definire chi e cosa sono e da dove parlano.

La distinzione fondamentale circa la loro natura è data dall’essere voci incarnate o disincarnate. Le prime hanno un corpo terreno e generalmente sono persone conosciute, viventi o meno. Le seconde sono esseri divini o demoniaci, spirituali e sconosciuti. Sia le une che le altre possono parlarci da dentro la nostra testa o da fuori. Questa distinzione è fondamentale per comprendere il tipo di influenza e di potere che possono esercitare su di noi, ma anche per porre nei giusti termini la questione delle prove della loro esistenza.

Ma andiamo con ordine.

Nel caso di voci disincarnate e sconosciute, il problema della loro esistenza oggettiva sfugge a qualsiasi soluzione scientifica. Se la voce ci dice, e ci mostra, di essere Dio, o qualche altra entità sovrannaturale, l’impossibilità di dimostrare la sua oggettività è prova, essa stessa, della sua realtà. La relazione fra uomo e divinità, del resto, è sempre stata di natura individuale e invisibile ai più. Se scorriamo i testi sacri, di fatti, difficilmente troveremo una rivelazione collettiva della verità divina. La voce di Dio sceglie e parla sempre a qualcuno, l’eletto, che poi ha un gran da fare a dimostrare agli altri la natura divina del messaggio che trasmette.

Se un tempo, come Teresa d’Avila, aveva da difendersi dall’accusa di essere strumento del demonio, oggi nondimeno deve dimostrare la sua sanità mentale se vuole evitare di essere internato in un’istituzione psichiatrica. Quando Cristo diceva ai suoi discepoli che sarebbero stati perseguitati perché parlavano in nome suo, affermava, a mio avviso, la verità elementare che seguire la propria voce interiore porta ad un inevitabile scontro con l’ordine della realtà condivisa.

Quale prova può portare una persona per dimostrare di essere stata davvero scelta da Dio? Se analizziamo il nostro immaginario culturale, troveremo facilmente la risposta. E’ la stessa prova che Dio dà alla persona per dimostrare la sua esistenza e la sua scelta: il miracolo. Con esso la voce divina agisce direttamente nel mondo della realtà materiale, la trasforma e mostra la sua oggettività come forza in grado di modificarla. Il miracolo serve sia a designare la persona scelta (di questa natura sono le stigmate prodotte sul corpo di Francesco d’Assisi), sia a dimostrare la sua credibilità nei confronti della comunità umana in cui è inserita (di questa natura sono, ad esempio, la moltiplicazione dei pani e dei pesci o la passeggiata di Gesù sulle acque).

In ogni caso i miracoli sono realtà osservabili che trascendono e sfuggono alle leggi naturali che riteniamo sovrintendano alla nostra vita. Il miracolo ribalta, in altre parole, il rapporto fra anima e corpo, dimostrando che è l’una a dar vita e a rendere possibile l’altra. Il celebre detto della montagna e di Maometto chiarisce ancora meglio il concetto: ciò in cui crediamo determina ciò che è. E’ sintomatica la formula che Gesù usa nello spiegare i miracoli, non lui ma è la nostra fede a cambiarci. A ben guardare è proprio così.

Ma se ci è proprio impossibile uscire dal paradosso conoscitivo in cui ci pone il sentire la voce di esseri sovrannaturali e, per ciò stesso, non percepibili, un discorso diverso va fatto sull’esperienza di sentire le voci di persone incarnate, a noi conosciute e percepite anche  nella realtà condivisa. Parlo di persone viventi, poiché la percezione di persone defunte da noi conosciute implica altre prove e contesti culturali di riferimento (la filosofia  e scienza spiritica di cui abbiamo parlato nel prologo).

Come riesce a parlare con Emy, ad esempio, la persona che sente? E come fa Emy a sentirla? La sua risposta mi sembra sensata: si tratta di telepatia. Ma come provarlo, soprattutto se non trova conferma nelle persone che sono in contatto con lei? Nessuna di loro ammette di parlarle, né di aver mai pensato le cose che lei dice di aver sentito da loro. E allora si ha davanti due strade: o si riconosce in questo loro silenzio un complotto per farci impazzire; oppure si può credere, come fa Emy, che questa trasmissione possa essere inconsapevole.   

Le voci, del resto, sembrano avere la stessa natura dei suoni sensati che emette la nostra laringe e, al contempo, la stessa immaterialità e inudibilità dei nostri pensieri. Esse non rispondono solo a ciò che diciamo loro ma anche e soprattutto alle nostre intenzioni, a ciò che pensiamo, a quello che desideriamo. In qualche modo ci sembra di udire con le orecchie i pensieri nostri o altrui, come se qualcosa li avesse amplificati fino a farci perdere il controllo su di loro.

Il fatto che il linguaggio possa operare una selezione e una mediazione rispetto a ciò che pensiamo, permettendoci di dire solo ciò che vogliamo o possiamo dire in un dato momento, ci permette  di aver un minimo di controllo sulle nostre relazioni. E’ esperienza comune ad ognuno che se dicessimo sempre tutto ciò che pensiamo resterebbe ben poco della vita sensata e relazionale che abbiamo. Per vivere in questa come in qualsiasi altra realtà dobbiamo scendere a compromessi con i nostri istinti e la nostra mente. In ciò non c’é alcuna contrapposizione fra pensieri e sentimenti: tanto gli uni che gli altri sono incontrollabili. Ciò che possiamo controllare, in qualche modo e con più o meno successo, è la loro espressione. In situazioni ottimali possiamo portar  fuori (o avere l’illusione di farlo) solo quello che riteniamo in linea con l’immagine che ci siamo costruiti di noi o con le aspettative che pensiamo gli altri abbiano di noi.

Questo fragile equilibrio fra dentro e fuori, io e gli altri, si regge anche sul linguaggio. Mi spiego. Nel comunicare le nostre esperienze interiori, noi usiamo normalmente tutta una serie di mediazioni che chiamiamo buonsenso o buona educazione. Non diciamo quasi mai le cose come stanno: in genere le diciamo così come crediamo o ci hanno insegnato vadano dette. Questa mediazione diventa una selezione di quali fra i nostri pensieri e le nostre esperienze siano socializzabili e, quindi, praticabili e quali invece siano da considerare aberrazioni o perversioni della nostra mente.

In altre parole di tutto quanto accade (o sembra accadere) dentro di noi, riusciamo ad accettare solo una piccola parte. E il resto ? La teoria psicoanalitica  suggerisce che questo scarto, che spesso è di gran lunga superiore a ciò che passa nella nostra vita di relazione, si accumula via via in un  luogo della nostra psiche chiamato inconscio e lì si organizza e si struttura, come una personalità parallela, mettendo insieme gli scarti dei nostri pensieri, delle nostre emozioni e desideri. Questa personalità inconscia condivide lo stesso spazio fisico nostro, ma ha una storia e forse anche una voce diversa dalla nostra. Non ha un corpo e può esistere solo attraverso noi, vedere solo attraverso i nostri occhi e sentire solo attraverso le nostre orecchie.

Non so se esiste da qualche parte qualcosa che assomigli all’inconscio immaginato da Freud. Sicuramente però esso non ha niente a che vedere con quella sorta di magazzino di cose rimosse e dismesse che la teoria freudiana descrive. Gli scarti di cui siamo alla ricerca sono esperienze, emozioni, sensazioni viventi. Non sono le foto di ciò che eravamo e neanche il ricordo di ciò che facevamo: ma tutto ciò che avremmo potuto essere e non siamo mai stati. Non cose ma un altro noi che non è mai nato, che non si è mai incarnato ma che è esistito e esiste, non visto e non udito dentro ma anche fuori di noi.

Può essere che questo altro di noi stessi  parli con Emy, così com’é possibile che sia il suo altro a parlare con lei. In ogni caso Emy non parla da sola, così come l’apparenza e la nostra paura vuol farci credere. Forse non parla neanche con noi, così come noi stessi ci conosciamo, ma ciononostante ciò che sente ci riguarda, così come ci riguarda il ricordo che altri hanno di noi. Non siamo più quelli che gli altri ricordano, ma al contempo lo siamo: possiamo non riconoscerci nei loro ricordi, ma non possiamo dire di non averci a che fare. Noi siamo anche quei ricordi, nel bene e nel male.

Certo questo non prova niente, anche se siamo paradossalmente capaci di ritenere delirante chi afferma che noi siamo in contatto telepatico con lui, mentre consideriamo reale, tanto da pagare fior di quattrini per sentircelo dire, che qualcuno ci venga a spiegare che il nostro rifiuto di prestare il servizio militare nasce dal conflitto irrisolto con nostro padre circa il  possesso carnale di nostra madre.

In realtà gran parte delle teorie e delle spiegazioni ovvie per giustificare le nostre azioni e comprendere quelle degli altri, nasce da esperienze, intuizioni, fenomeni che non possono essere spiegate, né  provate. Chi crede in Dio, ad esempio, sa che egli esiste, anche se a tutt’oggi non riuscirebbe a portare una sola prova scientifica della sua esistenza. Allo stesso modo, teorie come quella junghiana nascono, come C. JUNG conferma nella sua autobiografia, da esperienze allucinatorie che gli mostrarono, nella realtà della sua esistenza, ciò che poi egli teorizzerà come l’irrompere dell’inconscio collettivo nella storia individuale di ognuno. (cfr. C.G.JUNG 1984)

Scrive JUNG, a proposito delle sue esperienze di dialogo con  le voci:

"Portavo con me pensieri di cui non potevo parlare con nessuno: sarebbero stati solo fraintesi. Avvertivo nel modo più penoso l’abisso tra il mondo esterno e il mio mondo interiore: né potevo ancora cogliere quella interazione tra questi due mondi che oggi vedo con chiarezza. (...)

Comunque fin dal principio mi era chiaro che avrei potuto mettermi in rapporto col mondo esterno e con gli uomini solo se fossi riuscito a mostrare, e ciò avrebbe richiesto il massimo impegno, che i contenuti dell’esperienza psichica sono reali, e non solo come esperienze mie personali, ma come esperienze collettive, che anche altri possono avere. In seguito ho cercato di dimostrarlo nelle mie opere scientifiche, ma prima feci tutto quanto era in mio potere per comunicare a coloro che mi erano vicini un nuovo modo di vedere. Sapevo che se non vi fossi riuscito sarei stato condannato a una solitudine assoluta". (JUNG C.G. 1984, pag. 239)

Se volessimo portare questo brano di JUNG fino alle sue estreme conseguenze, potremmo dire che la teoria junghiana altri non è se non il tentativo di un uomo di non passare per pazzo. Tentativo senzaltro riuscito, che conferma non solo il fatto che le voci sono delle modalità di conoscenza del reale, ma anche che è imperativo vitale per chi le sente di mostrare a chi sta accanto la realtà della sua esperienza. Non c’é altro modo per sfuggire alla solitudine assoluta di cui parla Jung. Essa impera sia nel caso in cui tentiamo di tenere le voci per noi stessi, sia nel caso, ancora più frequente, in cui gli altri non credono che la nostra esperienza è patrimonio di tutti.

Per inciso, la strategia usata da Jung per contenere questa invasione dell’inconscio collettivo nella sua vita, viene descritta come un ancorarsi alle cose e alle persone della propria vita nella realtà condivisa.

"Era molto importante per me avere una vita normale nel mondo reale, per bilanciare la stranezza del mondo interiore. La famiglia e la professione rimanevano la base alla quale potevo sempre ritornare per ritrovare la sicurezza di essere un uomo comune, effettivamente esistente. (...)

Mi provavano giorno per giorno che esistevo realmente, che non ero una foglia ondeggiante ai venti dello spirito, come Nietzsche. Questi si era lasciato venir meno il terreno sotto i piedi perchè non possedeva altro che il mondo interiore dei suoi pensieri (e, oltretutto, ne era  piuttosto posseduto). Non aveva più radici, e si librava al di sopra della terra, e perciò era precipitato nell’esagerazione e nell’irrealtà. Per me una tale irrealtà era la quintessenza dell’orrore, poichè la mia meta era, dopo tutto, in questo mondo e in questa vita". (JUNG C.G. 1984, pag. 233)

Ciò senza negare il valore alla sua esperienza, ma cercando di non farsene travolgere.

Se accettiamo la premessa junghiana che i contenuti delle esperienze psichiche sono reali, possiamo risolvere la questione che ci affligge senza ulteriori vittime. Non dimentichiamo però che l’esperienza delle voci si trova in un’area di confine fra il mondo della percezione e quello del pensiero. Fra il mondo che sottostà a leggi fisiche in parte conosciute e quello che segue le leggi insondabili della psiche umana. Le prove che usiamo per confermare l’esattezza di una percezione o quelle che ci sembrano essenziali per verificare la sensatezza di un pensiero, non servono in quest’ambito ad alcunché.

Le voci non sono suoni udibili, ma non sono neanche produzioni psichiche. Se trattarle come sintomi patologici o false percezioni porta a risultati devastanti nella vita di chi le sente, considerarle espressione della fantasia, dei desideri o dei complessi psicologici di un individuo, può essere altrettanto inutile e dannoso. Psicologia e psichiatria, in questo, condividono lo stesso fine: controllare l’esperienza delle persone, togliendo loro la possibilità di spiegarla da sé e comunicarne i contenuti. Fra esperienza simbolica e allucinatoria c’é davvero una lieve differenza: crediamo di  sentire le voci, ma in realtà non le sentiamo.

L’ipotesi di JUNG, che ora sappiamo nata dall’esigenza personale di trovare un contesto di riferimento alle sue voci, è, se vogliamo, l’eccezione che conferma la regola. Le voci esistono e alcuni fra noi riescono a percepirle. Esse non sono frutto della nostra biochimica, né della nostra dinamica psichica: psiche e biochimica concorrono solo a renderne possibile l’ascolto. JUNG crede che parte di queste comunicazioni arrivi dal patrimonio delle esperienze collettive della nostra specie, inscritte in qualche modo nel nostro patrimonio genetico. Una convergenza straordinaria con quanto afferma JAYNES circa il fatto che nell’emisfero destro siano registrate le voci degli dei che guidarono gli uomini nel loro radicarsi sul nostro pianeta e che ne conservano la memoria e il senso.

Date certe situazioni psichiche e fisiche, il canale di comunicazione fra inconscio collettivo (emisfero destro) e io consapevole (emisfero sinistro) viene riattivato. Ciò sembra accadere sia in modo spontaneo (quando ad esempio un evento di straordinario impatto emotivo disgrega il controllo razionale della nostra mente) o attraverso tecniche specifiche elaborate da tutte le tradizioni culturali mistiche, magiche o allucinogene.

L’esperienza nei due casi si svolge in  maniera profondamente diversa.

Nel primo caso quello che si libera e ci attraversa è in gran parte correlato alla nostra storia individuale, presente e passata. Le voci che sentiamo sono quelle dei nostri cari o degli amici, i quali possono consolarci o accusarci di quanto è accaduto. Spesso questa esperienza ci disorienta, confondendo sempre più i confini fra il nostro e altrui pensiero, e, soprattutto fra le voci che siamo i soli a sentire e quelle condivise con gli altri. Non è raro in questa situazioni esporsi in situazioni in cui appariamo incoerenti, strani o bizzarri.

Questa esperienza si espone all’interpretazione psicologica proprio per questo suo drammatizzare la nostra storia umana e relazionale. In effetti le voci che sentiamo affondano le loro unghie sulle ferite irrisolte, sui dubbi, sulle paure che abbiamo, esponendoci al terrore e al ridicolo.

Trattarla però solo dal punto di vista psicologico, come mera manifestazione delle nostre esigenze interiori, non rende giustizia alla complessità dell’esperienza che stiamo vivendo. Del resto non è chiaro se le voci nascano dai nostri conflitti o se, al contrario, li mettono in campo e in evidenza per raggiungere il loro scopo: controllare la mente che le ospita.

Nel secondo caso, quello delle tecniche volontarie per accedere a stati alterati di percezione e coscienza, il percorso è del tutto diverso. Qui ci aspettiamo che una voce o una guida  emerga, pronti a metterci all’ascolto e dotati di strumenti culturali per catalogare, definire e usare le conoscenze che da questa esperienza derivano.

In questo caso l’elemento psicologico e individuale è dato solo dalla motivazione che spinge l’individuo ad esplorare le sue possibilità e ad affrontare l’ignoto. Ciò che da questa esperienza emerge difficilmente può essere costretto dentro gli schemi delle nostre scienze (che si dicono) umane: esso è infatti qualcosa di oggettivo e universale, che ci costituisce così come siamo.

Il nostro tentativo di psicologizzare queste esperienze (volontarie o involontarie che siano) non ha niente a che vedere con il bisogno di comprendere cos’è o chi è che invade il nostro ordine mentale. In realtà l’interpretazione psicologica tende a rinchiudere in noi la questione, sostituendo il dialogo vivo con le voci con un monologo interiore insensato e folle.

Le voci del resto fanno parte per statuto della nostra vita psichica, entrano nell’ordine dei nostri pensieri e condividono spesso con noi lo spazio del nostro corpo. Le voci desiderano, hanno memoria, fraintendono e vengono fraintese...hanno una loro struttura  psicologica che spesso non ha niente a che fare con la nostra cultura e carattere. Non sono la mera espressione di qualcosa, così come noi non siamo la semplice emanazione dei nostri genitori. Anche ammettendo che nascano da noi, questo non ci permette di ridurle al modo in cui funzionano i nostri sensi o la nostra biochimica.

Allo stesso modo, è illogico pensare di venirne a capo agendo sulla nostra mente o sulla nostra psicologia, così come è insensato che qualcuno pensi di farci smettere di parlare tappando la bocca ai nostri genitori. Le voci, come le idee espresse ad esempio in questo libro, una volta partorite non ci appartengono più.

Gli uditori che tentano di sottrarsi alle varie terapie psichiatriche, che promettono loro di liberarli dalle voci, hanno chiara questa verità elementare. Sanno che ogni cosa che verrà fatta dagli psichiatri, verrà fatta su di loro. Così gli psicofarmaci, l’isolamento, il coinvolgimento in situazioni di socialità forzata, la diagnosi di insanità mentale... L’idea che lo scopo delle voci possa essere quello di farci impazzire è frutto di una convergenza perversa fra loro e i nostri terapeuti. Di fatto niente viene comunemente fatto per far smettere le voci di invadere la nostra esistenza. Paradossalmente tutte le terapie psichiatriche tendono ad indebolire e a limitare la nostra capacità di percezione: il che equivale a dire che di fronte a qualcuno che ci minaccia invece di scappare o di affrontarlo per cercare di capire e risolvere la questione, noi ci tappiamo le orecchie per non sentirlo. E fin qui nulla di male. Possiamo argomentare circa l’inutilità di questa scelta, ma non possiamo non rispettarla. Sennonché questa sordità ci è imposta da chi crede che non ci sia nessuno che ci minaccia e, quindi, non ci sia nessuno da proteggere. Non solo, l’effetto che hanno le terapie psichiatriche (specie quelle psicofarmacologiche) sulla nostra percezione e coscienza, sono molto più estese e profonde di una temporanea sordità alle voci, se non altro perchè non esiste sostanza che possa agire selettivamente solo su alcune idee, pensieri, azioni o percezioni. Non si può diventare sordi rispetto alle voci e pensare di continuare a sentire se stessi e gli altri con lucidità, profondità e partecipazione. E come se dessi un calcio alla radio che si accende al mattino per svegliarmi, e poi cercassi di ascoltare la mia canzone preferita.

Prima di influenzare così radicalmente la nostra biochimica, dovremmo essere ben certi che non esista strada migliore per comprendere, modificare o gestire, le nostre percezioni. Al contrario, la terapia psichiatrica vede in questa invasione chimica la via elettiva di intervento. Mi si dirà che alcuni hanno trovato giovamento in questo approccio energico sui nostri sensi. Molti fra i pazienti psichiatrici negano, dopo il trattamento o un ricovero, di sentire voci. La maggiorparte di loro sono costretti a mentire. La logica perversa che regna in psichiatria, vuole che ogni fallimento terapeutico venga considerato una resistenza da parte della persona o della malattia, e mai un’inadeguatezza delle cure. Le persone devono essere malate di mente, devono sentirsi tali, devono trovare giovamento dalle terapie che influenzano il loro cervello: solo così la psichiatria può rivendicare per sé lo statuto di scienza medica. Non si spiegherebbe altrimenti l’accanimento insensato con cui questi medici hanno operato sui cervelli dei loro pazienti, senza alcun riscontro o prova della correttezza della loro ipotesi.

Accanto a questa versione ufficiale che viene imposta dalla psichiatria, si è sviluppata, in questi anni, una riflessione e una ricerca, prima personale poi collettiva, degli  uditori di voci che concordano con alcune delle linee tracciate in questo libro:

  • sentire voci non è una malattia, ma un modo e una possibilità della percezione umana;

  • questa esperienza percettiva, come ogni altra che riguarda i nostri sensi e la nostra sensibilità, non va curata, né trasformata a priori, ma compresa e gestita;

  • occorre dialogare con le voci: non serve far finta di niente o cercare di distrarsi;

  • la gestione di questo dialogo nasce dal riconoscerlo come tale e dal confrontarsi apertamente e chiaramente con le voci circa la loro identità e le possibili influenze reciproche;

  • le voci esistono, ma ciò non significa che abbiano sempre ragione;

  • le voci hanno a che fare con noi, ma ciò non significa che esse siano nostre fantasie o che vogliano necessariamente il nostro bene;

  • non siamo i soli a sentirle: sentire voci è un’esperienza reale e universale;

  • occorre conoscere e mettersi in contatto con gli altri uditori: solo chi sperimenta o ha sperimentato questa esperienza può aiutarci.

Il percorso che ho tentato di indicare in queste pagine è, come dicono i buddisti, solo un dito che indica la luna. Ci sono tanti altri diti puntati, sentieri personali e esperienze che vengono taciute o sono distrutte in questo inutile e inumano tentativo di zittire le voci che ci parlano.

Come è avvenuto per altre esperienze, occorre che gli uditori escano dal ghetto emotivo e sociale in cui li abbiamo rinchiusi, per tornare ad invadere la nostra vita e ordine quotidiani. Solo un movimento collettivo, costruito sulle storie di rapporto reali con le voci, può  rimettere in moto il senso della nostra  ricerca del senso del nostro esseri umani.

Un’esperienza condivisa e riconosciuta collettivamente come tale, sfugge al controllo asfittico della psichiatria, e ritorna ad essere possibilità umana. Una possibilità che ci è ancora indispensabile per arrivare dove non siamo capaci di arrivare e comprendere la realtà nella sua verità.

Questa guida è un invito a rompere il silenzio, ad organizzarsi e a battere un sentiero comune a chi sente e a chi non sente le voci. Del resto la sapienza buddista ci ricorda che sia che uno guardi, sia che tenga gli occhi chiusi, le cose sono rimangono ciò che sono. Non stiamo su due mondi diversi, quindi,  guardiamo e sentiamo il mondo da due angolazioni differenti.  L’invisibile aria è essenziale alla nostra vita quanto il cibo visibile che ingoiamo; così come l’inudibile passaggio del sangue attraverso le nostre vene fa parte della realtà come il rumore dell’acqua di un torrente.

L’esperienza di dialogo con le voci è un cammino attraverso la realtà, che noi tutti dobbiamo rendere possibile. Ho cercato di mostrare come chi non sente le voci, può aiutare chi li sente e può lasciarsi aiutare da lui a comprendere.

Non c’é una strada obbligata o unica. L’unica indicazione che ci deve guidare ci è data da Don Juan:

"Per me esiste solo il cammino lungo sentieri che hanno un cuore, lungo qualsiasi sentiero che abbia un cuore. Lungo questo io cammino, e la sola prova che vale è attraversarlo in tutta la sua lunghezza. E qui io cammino guardando, guardando, senza fiato ".

(in CASTANEDA C. 1970)