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SENTIRE LE VOCI
guida all'ascolto
INDICE 1.Prologo 3.Dialogo 5.Bibliografia
  2.Monologo 4.Epilogo

M O N O L O G O

" Jimmy McKenzie, all’ospedale psichiatrico, era un maledetto scocciatore, perché se ne andava in giro gridando dietro le sue voci. Ovviamente potevamo udire la conversazione da un lato solo, ma ci si poteva fare un’idea generale, per lo meno da espressioni come: < Andate a farvi fottere sudici bastardi..>

  Fu deciso di alleviare al contempo le sue e le nostre sofferenze, facendogli il favore di una lobotomia. Si notò un miglioramento delle sue condizioni.

Dopo l’operazione non andava più in giro urlando ingiurie contro le sue voci, ma: < Che cosa? Ripetete! Parlate forte, maledetti, non riesco a sentirvi!> "

(R.D.LAING)

 

 

La critica all’approccio psichiatrico alle voci è un’esigenza primaria per chiunque voglia sperare di confrontarsi o instaurare una qualche relazione con loro (e/o con le persone che le sentono). Abbiamo già detto che è plausibile formulare l’ipotesi di uno squilibrio organico cerebrale come base e causa di queste percezioni. Ma il fatto che un’ipotesi sia plausibile non significa necessariamente che sia vera. Sono, al contrario, portato a credere che le modificazioni biochimiche che certamente accompagnano l’esperienza del sentire voci, siano della stessa natura e abbiamo la stessa funzione delle modificazioni biochimiche che accompagnano il sentire il cinguettio degli uccelli nel cortile. Le modificazioni biochimiche che stanno avvenendo nel mio cervello in questo momento, mi permettono di sentire e creare il canto degli uccelli. Probabilmente niente del genere esiste là fuori. Sono io a tradurre stimoli invisibili e inudibili in sonorità. In questa esperienza percettiva, poi, sono comunque solo. Non saprò mai se mia moglie, indaffarata qui accanto, stia sentendo lo stesso cinguettio. Probabilmente sono il solo a sentire quel canto e quel fruscio di vento fra le foglie.

Credo che non sia sensato pensare che le modificazioni biochimiche, reali e osservabili, che avvengono nel nostro cervello quando sentiamo la voce di qualcuno, possano essere considerate sane o malate a seconda della nostra opinione circa l’esistenza o meno di colui che parla. A voler essere scientisti ad ogni costo, potremmo dire che il nostro cervello sente allo stesso modo qualcuno che parla, sia quando lo vede che quando gli è invisibile. La questione semmai è capire chi è, cosa vuole, che dice e, a volte, come farlo smettere di parlare.

La psichiatria tratta da sempre le sue ipotesi come fossero dei dati di fatto. Essa considera la normalità come un fatto oggettivo, scientifico, biologico. I comportamenti umani  non sono, per la psichiatria, frutto delle nostre esperienze, ma piuttosto della nostra struttura cerebrale così come l’abbiamo ereditata dai nostri genitori. Per questo l’esperienza del sentire voci può essere trattata alla stregua di un’appendicite e curata attraverso un’invasione chirurgica, chimica o elettrica del nostro cervello.

Ma si può sensatamente affermare che le nostre scelte, i nostri gusti  o le nostre idee siano espressioni o sintomi di una malattia? E che tipo di malattia è mai quella che si identifica con il nostro modo di essere e di vivere, con il nostro corpo e coi nostri sensi? Si può sensatamente affermare che chi esprime un’opinione o una scelta che non condividiamo sia malato e, quindi, inconsapevole di quanto sta dicendo o facendo? E di questa malattia non sono stati considerati affetti tutti coloro che per anni si sono ribellati alla loro lobotomia, alla loro carcerazione definitiva  nei manicomi, all’elettroshock? E soprattutto, come si fa ad affermare che le persone siano affette da una malattia il cui sintomo principale è il rifiuto da  parte delle stesse di essere malate?

Lobotomia, shock insulinici, elettroshock, psicofarmaci... ognuna di queste cure, sperimentate su centinaia di migliaia di esseri umani, in gran parte non consenzienti, hanno prodotto danni fisici osservabili e dimostrabili nei loro cervelli perfettamente sani. Il fine della psichiatria non sembra tanto quello di ristabilire un equilibrio nelle funzioni cerebrali dei suoi impazienti, quanto di controllare e modificare i loro comportamenti e il loro modo di pensare perché  ritenuti intollerabili o inaccettabili. In altre parole, la psichiatria non è una risposta ad un problema medico, ma a esigenze  che, di epoca in epoca, possono essere etiche, politiche, sociali, familiari, morali, religiose...

Come spiegare altrimenti il fatto che il delirio sessuale, la masturbazione, l’omosessualità, sono stati per decenni considerati sintomi di o malattie mentali vere e proprie? Se si continua a considerare la psichiatria una scienza medica, non si può in alcun modo spiegare come questi sintomi e malattie siano entrati a far parte della normalità e addirittura,  nel caso della omosessualità, connotino uno stato giuridicamente tutelato in diversi paesi nel mondo.

Le cosiddette malattie mentali non sono malattie del cervello, sono modi di usare il proprio corpo e la propria mente in modi socialmente inaccettabili in un dato periodo e in una data comunità umana. Il fatto che esistano tutt’oggi culture che valorizzano il sentire voci come un dono, trova il corrispettivo nel concetto di malattia mentale che noi usiamo per definire la medesima esperienza. L’idea che chi sente le voci sia malato è un prodotto culturale e non una verità scientifica, allo stesso modo in cui lo è l’idea che egli sia stato scelto da dio.

Il fatto che questa esperienza, come tutte le esperienze umane, abbia un substrato biochimico non ci permette di definirla malattia, allo stesso modo in cui non definiamo sintomi di malattia le modificazioni biochimiche che permettono al nostro corpo di partecipare all’ innamoramento o che ci fanno venire la pelle d’oca quando ascoltiamo un brano di musica.

Allo stesso modo, il fatto che questa esperienza sia universale non ci permette di generalizzare il nostro punto di vista ‘scientifico’, affermando che ciò dimostra che si tratta di una malattia non influenzabile da fattori sociali, economici o culturali. Come sopra, tale modo di pensare dovrebbe applicarsi ad una serie di esperienze umane che, al contrario, sono ritenute prettamente umane: l’attaccamento dei genitori ai figli; l’innamoramento; il sesso... Queste esperienze sono considerate universalmente sintomi di buon funzionamento sociale e biologico. Ciò non ci autorizza ad affermare che, per ciò stesso, esse siano esperienze di origine organica e, men che mai, patologica.

Non si capisce, del resto, secondo quale principio le opinioni scientifiche debbano essere considerate necessariamente vere e  estese a  s/piegare tutte le esperienze umane. Secondo quale principio ad esempio la Voce che chiede ad Abramo il sacrificio del figlio Isacco, possa essere considerata un’allucinazione e portata a prova dell’esistenza di una malattia mentale, e non mostrare invece che tutti i coatti psichiatrici, oggi diagnosticati come schizofrenici, siano in realtà solo canali delle volontà di dio o campo di battaglia dell’eterna lotta fra le forze del bene e del male.

Il fatto che intervengano processi biochimici specifici che rendono possibile sentire le voci, anche quando provate, non dimostrano che questa esperienza sia una malattia. Fra l’altro a queste modificazioni non appare correlato alcun altro disturbo nel funzionamento del nostro organismo. Una malattia cardiaca, respiratoria o a danno di qualsiasi altro organo del nostro corpo, ha inevitabili ripercussioni sul funzionamento generale del nostro organismo. Le cosiddette malattie mentali invece sembra che abbiano influenza solo sul nostro comportamento, i pensieri e il nostro modo di relazionarci al mondo. Non c’é di fatto differenza fra ciò che chiamiamo in alcune occasioni malattie mentali e ciò che in altre consideriamo punti di vista, riflessioni filosofiche, identità, carattere... Ciò che fa di un’idea un delirio è il fatto che non venga riconosciuta dagli altri. Il fatto che sia giusta o sbagliata, vera o falsa, corretta o errata, non influenza il giudizio psichiatrico: ciò che occorre per definire un’idea malata è la sua natura soggettiva. Idee collettive, anche le più terrificanti e inquietanti, vengono analizzate come espressione dell’intelletto e della ragione umana, anche se errate o immorali esse vengono riconosciute come sensate.

In realtà del concetto di malattia, che ha (e dovrebbe avere) un ambito di impiego ben definito, si fa ormai un uso estensivo, non giustificato da esigenze scientifiche, ma motivato dalla necessità di trovare filosofie che giustifichino da un lato la nostra incapacità di comprendere quello che ci accade, dall’altro le azioni che poniamo in essere per zittire e negare le nostre e altrui esperienze.

L’imperativo che oggi  sembra  muoverci è quello di non prestare ascolto a ciò che le persone e/o le voci dicono. Per farlo non è bastato, né basta, ritenerle semplici fantasie inesistenti, occorre intervenire invasivamente nei corpi, nel cervello e nell’esistenza delle persone per impedire loro di percepirle e comunicarne l’esistenza ad altri. La psichiatria ha, in questo come in altri casi, la funzione di coprire ideologicamente questa attività di negazione e repressione dell’esperienza umana. Serve cioè a trasformare degli atti altrimenti vissuti come violenti e ingiusti, in strategie e tecniche terapeutiche. Quando si da del "malato di mente" a qualcuno, ricorda T. SZSAZ, non si dice niente intorno a chi egli sia o a cosa stia vivendo, si autorizza soltanto chi gli sta accanto a limitare la sua libertà personale, di movimento e di scelta. Ciò che in qualsiasi altra situazione sarebbe considerato un reato di rilevanza penale, diventa, attraverso l’uso della terminologia psichiatrica, un atto scientifico e terapeutico.

L’uso politico che si è fatto (e si fa) della psichiatria in alcuni regimi autoritari, non è, come comunemente si crede, una degenerazione dovuta a volontà esterne alla psichiatria stessa. Ne rappresenta semmai la realizzazione più crudemente e esplicitamente concreta. Avviene ciò che è avvenuto nei manicomi di tutto il mondo: liberi di agire senza alcun vincolo né morale, né etico, né tantomeno legale, gli psichiatri hanno pensato, realizzato e gestito dei grandi  campi di concentramento con il fine di punire, controllare e far  cambiare idea a persone che, in un modo o nell’altro, trasgredivano le leggi scritte e non scritte su cui si fonda il nostro vivere civile.

Il fine esplicito della psichiatria sembra quello di trasformare le persone, tenendo conto non delle loro personali intenzioni e volontà, ma delle esigenze di chi sta loro intorno. In questo senso credo si possa dire che non c’é uso della psichiatria che non sia in sé un abuso.

Ho parlato nel prologo di dittatura percettiva imposta ai nostri sensi e alla nostra mente dalla visione scientifica della realtà. Ho usato la parola dittatura per significare il fatto che essa non si regge tanto, o solo, sul libero consenso informato di ognuno di noi, quanto su una serie di strumenti  mistificatori, coattivi e di minaccia. Percepiamo il mondo con certe modalità non solo perché possiamo farlo ma anche perché dobbiamo farlo.

Ognuno di noi sa che l’emergere di sensazioni e percezioni non in linea con i modi comuni di sentire, lo espone al giudizio e all’intervento psichiatrico. Tale giudizio preclude alla persona la possibilità di comunicare le proprie esperienze, esprimere le proprie volontà, vivere nella realtà quotidiana. I suoi pensieri, le sue idee, i suoi comportamenti smettono di essere tali, diventano solo sintomi di una malattia, cose che possono essere manipolate, modificate, controllate...

La cura psichiatrica consiste nel far smettere alcune persone di pensare (o anche solo di comunicare) le proprie esperienze soggettive. Esse saranno ben compensate o guarite solo quando smetteranno di affermare di credere a ciò che succede loro e concorderanno con il punto di vista dei loro terapeuti. Chi non si adegua a questa aspettativa psichiatrica inizia un calvario di internamenti e cure che gli preclude di fatto qualsiasi possibilità di esistenza. Chi vi si adegua smette di essere (e rivendicare di essere) una persona.

Una volta presi dalla spirale psichiatrica,  non si hanno molte scelte davanti: o ci si piega e si accetta il giudizio psichiatrico, accettando di vivere una vita protetta e subalterna; o si  resiste e si vede via via svanire la propria casa, gli amici, il lavoro, la patente... L’intervento psichiatrico non affronta alcun problema: semplicemente lo fa sparire. In questo gioco di prestigio spariscono, ogni anno, dalla faccia della terra migliaia di individui rei spesso solo di lesa realtà. Essi vengono sottoposti al giudizio di una corte che giudica la loro difesa parte integrante del reato. Qualunque cittadino ha riconosciuto il diritto alla difesa anche se accusato della nefandezza più inaccettabile. Un paziente psichiatrico invece viene internato e punito, giudicato pericoloso e curato, solo perché difende il suo punto di vista.

Non abbiamo elementi per affermare che sentire le voci sia una malattia: l’unica cosa certa è che le Voci hanno sempre parlato agli uomini. L’unica differenza fra le culture, le epoche storiche e i singoli individui, sta nel tipo di dialogo che essi hanno instaurato con loro e nell’ascolto che vi hanno prestato.

La nostra epoca ha in qualche modo scelto la via della negazione di tale rapporto, togliendo la parola alle persone e cercando di impedire loro il dialogo con le voci.

Ma non è stato sempre così. E’ un fatto acquisito che questa esperienza è stata universalmente usata, in culture ed epoche diverse, come elemento centrale di pratiche mistiche, magico-rituali e culturali. Le voci hanno guidato intere comunità di uomini e hanno favorito il loro adattamento ad un ambiente ostile  e la loro sopravvivenza materiale, psicologica e sociale. Le esperienze e i suggerimenti delle voci hanno permesso per secoli agli uomini di riflettere e dirimere i nodi della loro conoscenza del mondo e della realtà della loro esistenza. Esse hanno avuto parte nelle decisioni fondamentali con cui gli esseri umani si sono organizzati e hanno messo radici su questo pianeta. Spesso questa realtà viene svilita rappresentando il dialogo con le voci come nota di folclore appartenente a certe culture tribali e primitive o alle vite mistiche di certi santi.  Il fatto che il dialogo con loro abbia contribuito alla costruzione di questa nostra cultura  che ora tenta di liberarsene, non viene preso in considerazione con la stessa cecità con cui cerchiamo di negare le nostre radici quando ce ne vergogniamo.

La metafora della cacciata di Adamo e Eva dall’Eden è quanto mai azzeccata per descrivere questa situazione. Essi vivevano in una situazione di comunione con il creato, guidati dalla volontà e dal verbo divino. L’Eden non è  un luogo fisico ma una condizione della mente e del corpo per cui non vi è coscienza responsabilità: Adamo e Eva non dovevano scegliere, vivevano e crescevano con la stessa felice incoscienza con cui crescono gli alberi. Privi di consapevolezza, essi erano esenti dal dolore e dalla sofferenza. Non possedevano/conoscevano niente, neanche il loro corpo. Non erano semplicemente disincarnati, essi erano tutt’uno con la materia e lo spirito dell’universo. Non vi era niente in loro che ricordasse la coscienza così come noi la sperimentiamo. Essi scorrevano con l’acqua del fiume o viaggiavano con le nuvole in cielo, un’unica mente abitava ogni cosa vivente e non. Qualcosa di simile all’esperienza che noi tutti abbiamo vissuto nel ventre materno. Non a caso definiamo il nostro desiderio di rientrarvi come metafora del  Paradiso. Nel liquido amniotico noi siamo tutt’uno col battito del cuore della nostra madre, con il sangue che viene pompato in circolo, coi movimenti della sua respirazione... non abbiamo più coscienza di noi stessi di quanto il cuore abbia coscienza di esserlo o di battere ritmicamente il nostro tempo intrauterino.

Credo che sia questo il  momento in cui il suono e la voce umana entra a far parte di noi, delle nostre cellule, del nostro patrimonio genetico. Nella nostra vita intrauterina incosciente non c’é modo di operare una separazione fra noi stessi, gli stimoli che riceviamo e le nostre risposte: siamo un tutt’uno. Non percepiamo le voci e i suoni, siamo quelle voci e quei suoni. In qualche modo questa esperienza collabora alla costruzione del nostro corpo e della nostra mente e vi rimane inscritta. Noi siamo suono, oltre ad essere materia. Per questo il suono può modificare la materia e la mente umana. Pensate alle reazioni biochimiche che provoca in noi una poesia d’amore o un insulto. Pensate allo stato alterato di coscienza in cui ci trasporta il ritmo ossessivo delle musiche tribali. Pensate al blocco motorio che nasce dal terrore di una minaccia verbale. Quante volte siamo rimasti attoniti e immobili di fronte alle parole di un superiore, il cuore ci è saltato in gola e abbiamo sudato? Nessuno ha iniettato sostanze nel nostro organismo, ci ha tenuto fermo o a spento i condizionatori d’aria, eppure il nostro corpo ha reagito a quelle parole come se qualcosa del genere fosse successo.

In qualche modo e a qualche livello il suono rappresenta qualcosa di primordiale impresso nella nostra materia, oltre che nel nostro spirito. Il linguaggio, in questo senso, può essere considerato un sistema di suoni a cui viene dato un significato convenzionale e riconosciuto da un gruppo. Questo sistema è qualcosa di più di un semplice costrutto sociale: esso infatti usa la materia primordiale di cui siamo fatti.

Quando sentiamo qualcuno che parla, la sua voce, oltre ad essere un insieme di suoni sensati, è un messaggio che, in qualche modo, attiva le nostre cellule e la memoria genetica che in esse è custodita. Accade così che la voce di dio sulla via di Damasco può cambiare per sempre la vita di Paolo, così come l’OM salmodiato da Allen GINSBERG bloccò negli anni settanta una carica della polizia.

Le voci, oltre ad essere suoni, sono espressioni di esseri umani. Su questi suoni si costruiscono le relazioni con noi stessi, con gli altri e col mondo. Se ce ne stessimo per giorni a parlare di streghe e magie, troveremmo da subito elementi e dati percettivi inconfutabili della presenza e del passaggio di entità invisibili nella nostra vita. Spesso liquidiamo tutto come frutto della suggestione. Ciò può essere vero, ma il potere del linguaggio non è tutto qui. Più che suggestionare, le nostre discussioni, man mano che si evolvono, spostano la nostra attenzione e alterano la nostra percezione della realtà, facendo venir meno il controllo inconsapevole che esercitiamo sui nostri sensi. In poche parole cominciamo a vedere e a sentire cose su cui prima non investivamo attenzione. Questi fatti, che ora chiamiamo magici, erano già presenti: diventiamo solo capaci di percepirli. Per liberarcene usiamo lo stesso sistema: ci distraiamo, parliamo d’altro, disinvestiamo la nostra attenzione da questa ricerca dei segni e riinvestiamo la realtà condivisa. In tutto questo il linguaggio la fa da padrone.

Ma torniamo un attimo in Paradiso. Avevamo lasciato Adamo e Eva nel liquido amniotico primordiale, felici e incoscienti. Come tutti sappiamo, essi perderanno questo privilegio per colpa della loro disobbedienza al divieto posto da Dio di cibarsi delle mele dell’albero della Conoscenza del Bene e del Male.  Questo atto di orgoglio e ribellione, suggerito dalla voce del serpente, è citato come l’inizio della caduta dell’uomo nell’inferno terreno, come causa prima della sofferenza del genere umano. Questa storia è raccontata a tutti i bambini cattolici del mondo come esempio del fatto che la sofferenza nasce dalla disobbedienza alle leggi e ai comandamenti di Dio e che da questa derivano tutti i mali del mondo. Quando Franco afferma di sentire qualcuno che gli ordina di rimanere a letto perché da questo dipende la salvezza della sua famiglia e del suo paese, non sta delirando, sta ripresentificando questo dramma primordiale. Con la stessa sensatezza con cui il suo psichiatra cattolico gli prescrive psicofarmaci, potrebbe anche tentare di aiutarlo a portare questa croce e a condividerne le responsabilità. Ma

"  Uno psichiatra è stato addestrato a credere che, se dovesse pensare di pensare e di sentire più o meno come quelle persone per cui ha formulato la diagnosi di psicosi, ciò non significherebbe che esse non sono psicotiche, ma che egli stesso è psicotico. Vi è, in un certo senso, una maggiore differenza fra uno psichiatra di questo credo e uno schizofrenico che fra un normale essere umano e un topo.

Differenze fra persone, non persone ‘differenti’ " (R.D.LAING 1982, pag. 36)

Ma cosa avevano fatto Adamo e Eva? Perchè era così importante che non mangiassero la mela? La conoscenza del bene e del male, la conquista del libero arbitrio e della coscienza di sè, coincidono con la perdita della situazione di comunione con il resto del creato. Non a caso subito dopo aver mangiato la mela e aver peccato Adamo e Eva scoprono il loro corpo, la loro individualità, il loro limite e il loro confine, accorgendosi di essere nudi e vergognandosi di questo. La cacciata dall’Eden equivale alla nascita biologica: l’unità viene rotta e noi ci incarniamo in un corpo di cui rimaniamo prigionieri. Le voci in qualche modo sono echi di quel mondo che abbiamo perduto per sempre, esse hanno radici in quell’esperienza primordiale in cui noi non c’eravamo ancora. In principio, del resto, era il Verbo.

La tesi che l’esperienza del sentire le voci possa in qualche modo ritenersi vestigia di un’epoca in cui la coscienza umana, così come la conosciamo, non era ancora sorta, è stata elaborata e proposta da uno psicologo sperimentale, Julian JAYNES, che l’ha esposta nel suo libro Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza ( J. JAYNES 1984). In esso egli afferma sostanzialmente che la coscienza che crediamo connaturata agli esseri umani è invece un prodotto abbastanza recente dell’evoluzione umana. Egli afferma che"...ci fu un tempo in cui la natura umana era scissa in due parti: una parte direttiva chiamata dio, e una parte soggetta chiamata uomo" (J.JAYNES 1984, pag. 111). Un tempo in cui il sentire voci era la norma. Gli esseri umani erano guidati da un sistema di voci che intervenivano in ogni occasione in cui occorreva prendere una decisione. Secondo questo autore che ha elaborato le sue tesi attraverso l’analisi di documenti e dei  reperti archeologici riguardanti civiltà come quella greca, egizia, azteca..., l’esperienza del sentire voci non è altro se non l’attivazione di una modalità arcaica e universale di funzionamento del cervello. Non un’alterazione patologica, quindi, ma il recuperò di capacità e possibilità umane cadute in disuso con la nascita della coscienza.

La coscienza ha sostituito, secondo JAYNES, la voce direttiva degli dei che valutava, ordinava, prevedeva gli eventi e sceglieva il da farsi. Il dialogo interiore che costituisce l’essenza del nostro essere coscienti, è un’evoluzione del dialogo che avevamo con gli dei. Abbiamo in altre parole interiorizzato questo rapporto, identificandoci e facendo nostra la voce che ci parlava.

JAYNES comunque non ha dubbi circa la realtà delle voci.

"Alcune persone provano difficoltà persino a immaginare che possano esserci voci mentali che si odono con la stessa qualità esperenziale di voci prodotte dall’esterno. Dopo tutto, nel cervello non ci sono né bocca, né laringe!

Quali che siano le aree del cervello utilizzate, è assolutamente certo che tali voci esistono e che, per chi le sperimenta, sono assolutamente identiche a suoni reali". (J.JAYNES 1984, pag. 113).

La necessità di sviluppare un sistema di voci articolato nasce dall’urgenza di realizzare un adattamento all’ambiente naturale e umano in cui gli esseri umani erano inseriti. I primi ordini sonori da parte di coloro che venivano designati come capi o re, per divenire norma e regola di vita, dovevano in qualche modo essere risentite continuamente da chi vi si doveva adeguare. Non c’era ai primordi della storia umana niente che permettesse, secondo JAYNES, agli uomini di usare funzioni che oggi riteniamo costituitive della nostra coscienza (memoria, apprendimento per tentativi ed errori, capacità di previsione...). Queste funzioni erano svolte dalle voci che ogni membro della comunità sentiva e che ordinavano la vita sociale.

Accanto alle prove di tipo culturale, JAYNES ci offre un’ipotesi di tipo organico all’origine delle voci. Egli ritiene che il fenomeno del sentire le voci possa essere funzione di aree del cervello oggi inutilizzate. In particolare egli individua un’area dell’emisfero destro del nostro cervello, corrispondente all’area del linguaggio nell’emisfero sinistro. Qui un tempo albergavano la voci degli dei che parlavano all’emisfero sinistro, ordinando agli uomini cosa fare.

Quest’area stimolata elettricamente produce negli esseri umani esperienze uditive molto vicine a quelle descritte dalle persone che sentono voci. Ciò non è naturalmente sufficiente a dimostrare alcunché di certo. Ciononostante apre la prospettiva di uno studio integrato sulle voci che le legga tanto dal punto di vista della loro funzione positiva di modalità di percezione e conoscenza della realtà, quanto dal punto di vista dei processi biochimici che la rendono possibile.   

JAYNES mostra, a mio avviso, che è possibile fare una ricerca seria sull’esperienza delle voci, anche dal punto di vista biologico, senza utilizzare necessariamente il concetto fuorviante di  malattia. Il sentire voci può essere considerata una modalità di funzionamento del nostro cervello e della nostra coscienza: identificarsi, cioè, con un particolare modo della conoscenza e dell’esistenza umana. Non una patologia nel funzionamento di un cervello e di una percezione normali, ma una percezione altra che è possibile e connaturata geneticamente e culturalmente nel nostro cervello.

Il fatto che sia un’esperienza umana in linea col modo in cui il nostro organismo  può funzionare, non toglie niente al fatto che essa possa essere vissuta con la forza di un vero e proprio cataclisma da chi la sperimenta. Legati come siamo ad una cultura e ad un modello di riferimento che vede la nostra coscienza come distinta dalle coscienze altrui e il nostro corpo come limite ultimo fra noi e il mondo, non possiamo non sentirci impazzire di fronte ad un’esperienza che crediamo impossibile. Capire che per molto tempo sentire le voci è stato il modo normale in cui gli esseri umani vivevano e prendevano le loro decisioni, può forse aiutarci ad affrontare il terrore e la paura che tale esperienza, spesso nelle fasi iniziali, ci provoca.

Sicuramente non basta, ma è un buon modo per iniziare.

La paura di impazzire e/o di essere considerati matti, è il sentimento che ci spinge più di ogni altro nell’abbraccio spesso mortale della psichiatria. La paura insieme al tentativo di razionalizzarla. Come afferma un uditore:

" Sembrava come se avessi delle linee telefoniche dentro il mio petto. All’inizio sono stato persino abbastanza stupido da guardarmi dentro la camicia per vedere da dove venivano - forse c’era un microfono o qualcosa di simile, pensavo, ‘incredibile, mi sembra di avere un centralino telefonico incorporato’ "  (M.A.J. ROMME, A.D.M.A.C ESCHER 1988)

Razionalizzazioni di tale natura, tentativi di spiegare le voci in maniera sensata e a partire dalle nostre conoscenze scientifiche della realtà, hanno il paradossale effetto di farci apparire totalmente irrazionali e folli agli occhi dei più. Così la signora che denuncia i vicini perché le parlano dagli elettrodomestici o quella che tiene il volume del televisore alto per non sentirli. Tutte le spiegazioni o le strategie razionali che usiamo per negare o zittire le voci, in un modo o in altro, ci si rivoltano contro. Probabilmente il livello di realtà in cui essi esistono e operano non è quello controllato dai nostri sensi e dagli strumenti a nostra disposizione. Così andrebbe spiegato alla signora che non si possono arrestare e mandare sotto processo le voci, così come non esiste suono che possa sovrastarle poiché il sentirle appare qualcosa di più radicale del percepirle con le orecchie.

JAYNES cita a tal proposito alcune ricerche svolte su persone sorde con diagnosi di schizofrenia. "In uno studio, 16 su 22 schizofrenici affetti da sordità grave che soffrivano di allucinazioni sostennero di avere udito  una qualche forma di comunicazione. Una donna di trentadue anni, nata sorda, che era tormentata dai rimorsi per essersi sottoposta a un aborto terapeutico, affermava di avere udito accuse da parte di Dio. Un’altra donna, di cinquant’anni, affetta da sordità congenita, udiva voci soprannaturali proclamanti che essa aveva poteri occulti. (JAYNES cit. pagg.119-120). Ciò dimostrerebbe secondo l’autore che la percezione delle voci è cerebrale più che sensoriale. Il che dal punto di vista dell’esperienza esistenziale equivale a dire che il sentire voci è molto simile alla sensazione di essere abitati, posseduti o controllati da altri.

Abbiamo a che fare con parole che hanno sì tutte le caratteristiche sonore del linguaggio umano, ma che in qualche modo sembrano silenziose e intime come i nostri pensieri.  Di fatto esse non sono udite dagli altri così come non lo sono i pensieri e, per lo più, rispondono telepaticamente non solo a quello che urliamo loro contro, ma anche e soprattutto a ciò che pensiamo, alle emozioni che proviamo, alle idee che ci formiamo. L’esperienza che ne deriva è molto simile a quella che pensiamo debba essere un’esperienza telepatica. La sensazione è quella di udire i pensieri altrui e di comunicare con loro attraverso la nostra mente.

Le voci ci entrano letteralmente in testa. La loro natura è tale da permettere loro di intrufolarsi nelle pieghe più intime della nostra vita interiore. Esse possono mischiarsi ai nostri pensieri, seguirci nei sogni, conoscere i nostri più intimi segreti. Il loro potere nasce appunto dalla conoscenza che sembrano avere di ogni nostra più piccola ferita. La nostra debolezza nasce, di converso, dal fatto che spesso non conosciamo nulla di loro e del fine che intendono raggiungere.Aumentare la nostra consapevolezza e la nostra comprensione di ciò che significa sentire le voci, contribuisce ad avere sempre più potere e energia per controllarle.

Questo è almeno ciò che il buon senso suggerisce quando ci si trova di fronte ad una situazione o ad un’esperienza che non si comprende. Il buon senso, appunto. La psichiatria non è figlia del buon senso, ma della paura. Il suo interesse non è capire, ma controllare. L’uomo che va in giro per il teatro cercando il filo da cui proviene la musica che tutti gli altri fanno finta di non sentire, disturba lo spettacolo e inquieta gli spettatori. Se non si può bloccare la musica che sente, lui può essere afferrato e condotto al Pronto Soccorso del più vicino ospedale per essere aiutato.

Di quale aiuto credete che quell’uomo abbia bisogno? Se credessimo davvero a quanto lui dice, potremmo rispondere nello stesso modo in cui rispondiamo a chi ci chiede un’informazione circa il bar più vicino. Possiamo esserne infastiditi, ma ciononostante non pensiamo che egli sia pazzo. L’aiuto di cui entrambi hanno bisogno è l’informazione circa qualcosa che cercano. La differenza non sta in loro, ma nel nostro giudizio circa l’esistenza o meno di ciò che cercano.

E’ questa differenza che trasforma le esperienze umane in  patologie. Essere tristi per un lutto, ad esempio, è  considerato un fatto normale. Ma se restiamo in questa condizione per un periodo superiore alla norma definita dalla psichiatria, la nostra tristezza si trasforma in una malattia. La psichiatria traccia i limiti temporali e spaziali entro i quali possiamo muoverci e possiamo esprimere i nostri sentimenti. Se per qualsiasi motivo non li rispettiamo, essa costruisce prigioni materiali, chimiche o simboliche, in cui rinchiuderci e impedire che la nostra follia contagi altri.

Nel caso delle voci in particolare, il ragionamento psichiatrico spinge le persone a rifiutare quello che stanno sentendo e a ritenerlo un puro prodotto di una biochimica o di una psicologia alterata. Le prescrizioni terapeutiche andranno dal tener impegnati i pazienti con ogni genere di attività, all’assunzione di sostanze che limitano la loro capacità di pensare, percepire e agire; dal ricovero in un reparto di psichiatria a psicoterapie volte a mostrare loro l’infondatezza e l’inesistenza delle loro percezioni.

L’intero sistema psichiatrico è costruito in modo da agire, con o senza il consenso delle persone, per  svilirne le esperienze e  limitarne la possibilità di comunicazione. Del resto finché la psichiatria identificherà  i  sintomi della malattia che afferma di curare con le scelte, le idee e i modi di agire delle persone, non potrà che apparire, agli occhi di chi la subisce, alla stessa stregua di una vera e propria persecuzione sociale.

Curare si identifica di fatto, nella pratica psichiatrica, con  punire: si puniscono le persone per quello che dicono di vedere e di sentire, sperando che esse smettano di farlo o, in ogni caso, di comunicarlo. Le si punisce sia con i ricoveri entro reparti e strutture psichiatriche, ma anche e soprattutto trasformando la loro esistenza in una vita a libertà vigilata; sia con l’uso di sostanze o terapie che limitano la loro capacità di giudizio e la loro volontà, ma anche e soprattutto intrappolandole nel ruolo di malati insensati, inaffidabili e in/credibili.

Ecco, credo che il cuore del potere psichiatrico nasca dalla distruzione della credibilità dei suoi pazienti. Meno essi sono credibili, più lo psichiatra è autorizzato ad intervenire e imporre il suo punto di vista e le sue terapie. Spesso nel momento in cui si viene a contatto con la psichiatria si mantiene ancora un minimo di credibilità che ci da un minimo di potere nella gestione delle nostre scelte. Dopo tale contatto perdiamo, per statuto, ogni possibilità di agire e, al contempo, altri acquistano il controllo totale della nostra vita.

JAYNES suggerisce che in questo atteggiamento di scontro frontale che la psichiatria adotta nei confronti dell’esperienza del sentire le voci, con interventi massivi e invasivi nella mente e nell’esistenza degli individui, si nasconde di fatto una lotta per il controllo degli individui. Le voci e la psichiatria condividono lo stesso fine e si giustificano allo stesso modo: tutto ciò che fanno è per il nostro bene. Scrive infatti JAYNES: "Al primo sospetto di allucinazioni, agli psicotici viene somministrato un qualche tipo di farmaco, come la torazina, che elimina specificatamente le allucinazioni. Questo modo di procedere è a dir poco discutibile, e può andare a vantaggio non del paziente ma dell’ospedale, che desidera eliminare questo controllo antagonistico sul paziente ". (JAYNES J. 1984, pag. 115)

In questo scontro non è difficile che abbiano spesso la meglio le voci, se non altro perché il dialogo con loro, per quanto duro e angosciante, appare molto più sensato e significativo del monologo che la psichiatria cerca di imporci. Spesso le voci sono l’unica forma di comunicazione e di relazione interumana che la pratica psichiatrica ci consente. Nei manicomi, ad esempio, le voci sono spesso le uniche realtà umane presenti. Infermieri, medici, assistenti sociali fanno parte integrante delle inferriate e dei muri scrostati: testimoni muti e sordi da sporcare di feci, di sputo e di rabbia.

Il potere che le voci esercitano sulle nostre scelte nasce anche da questo isolamento a cui la psichiatria ci espone. Isolamento fisico ma anche e soprattutto emotivo e relazionale. Nessuno è più disponibile a darci ascolto, a parlare con noi di ciò che ci accade. Nelle prescrizioni che vengono date ai nostri familiari e amici c’è quella di controllare che noi non riprendiamo a sentire le voci o a comportarci come se le sentissimo.

Il fatto di non parlare di ciò che le voci ci dicono, se è salutato dagli psichiatri e da chi ci sta intorno come una prova del miglioramento delle nostre condizioni psichiche,  ci impedisce qualsiasi confronto fra le verità delle voci e la realtà in cui viviamo. Noi tutti sappiamo che è da questo confronto e con questa mediazione relazionale che riusciamo a formarci delle opinioni e ad evitare, per quanto possibile, di irrigidirci su idee fisse e inattaccabili. Dobbiamo dire che aggrapparsi a certezze non è mai un fatto patologico, ma un’esigenza umana. Giungere alla conclusione di credere di essere davvero stati scelti da dio per una missione impossibile, non è molto diverso dal convincersi dell’esistenza di un desiderio incestuoso universale che coinvolge il rapporto coi nostri genitori. Eppure nel primo caso non abbiamo nessuna difficoltà a parlare di delirio, laddove chiamiamo certezza scientifica il complesso di Edipo elaborato da Freud.

Il problema non è, a mio avviso, quello che a stare a sentire solo le voci si finisce per convincersi della liceità di uccidere John Lennon o della possibilità di poter volare, rischiando così la propria vita. Corriamo gli stessi rischi a stare ad ascoltare i nostri genitori, gli insegnanti, i poeti, i generali e tutte le altre persone materiali che ci stanno intorno. La questione è quella di permettere a tutti quel confronto e quel dialogo che solo può evitare che la nostra esigenza di avere delle certezze si traduca nella distruzione delle certezze altrui.

Ogni teoria che neghi il dialogo con le voci è, a mio avviso, implicitamente corresponsabile delle azioni  insensate e contraddittorie che ne derivano. L’uomo che cerca il filo da cui proviene la musica che sente non avrebbe alcuna necessità di distruggere il teatro a colpi di mazza, se noi gli permettessimo e, anzi, lo aiutassimo a svelare questo mistero.  

Siamo disponibili ad accettare che la mancanza di dialogo è ciò che più  fa soffrire gli esseri umani, solo per poi imporla per statuto ad alcuni e chiamarla terapia. Anche quel surrogato di relazione umana che definiamo psicoterapia nega in pratica ciò che in teoria afferma. Neanche in quel caso c’è un vero e genuino dialogo. Tutto quel darci ascolto nasconde il segreto tentativo di convincerci che qualcosa non va nelle nostre percezioni e farci accettare di lasciarci curare. In questo, come in tutti gli altri campi in cui opera, la psichiatria mira a spingere le persone a tradire se stesse, a negare le proprie idee e esperienze, a sottomettersi al suo punto di vista. Nel caso delle voci questo si traduce nel tentativo di  sostituire un dialogo ricco di emozioni e suggestioni, con un monologo insensato e inutile.

L’ipotesi psichiatrica si spinge ben al di là di qualsiasi altra teoria umana nel negare esistenza e realtà alle voci. Non solo non crede che ci sia qualcuno che ci stia parlando, ma non crede neanche che noi lo stiamo davvero sentendo.

Ciò che viene meno a seguito di questo atteggiamento non è tanto o solo la possibilità di una qualche forma di relazione umana con chi sente le voci, quanto piuttosto la possibilità della sua esistenza come persona. Di fronte alle pratiche psichiatriche torna attuale il monito che  R.D.LAING lancia dalle pagine del suo libro: La politica dell’esperienza:

" Prima di essere in condizioni di poter porre un interrogativo ottimistico come il seguente: <In cosa consiste un rapporto fra persone?> bisogna che ci chiediamo se un rapporto tra persone sia possibile; o, meglio, se, nella nostra situazione attuale, sono possibili delle persone ". (R.D.LAING 1980, pag. 19)

Questo atteggiamento, aldilà dell’arbitrarietà del giudizio che esprime, è di fatto quanto di più lontano possa esistere dalla volontà di prestare aiuto a qualcuno. Il meccanismo paradossale che scatta con il giudizio psichiatrico è quello che ci fa credere che, essendo le voci un fatto immaginario, anche la paura, il terrore o l’inquietudine che ne deriva siano essi stessi una fantasia.

Nel negare l’esperienza delle persone noi le esponiamo ad un terrore sempre più grande, senza limiti e possibilità d’uscita. Se la porta non è sbarrata dalle voci che ci minacciano là fuori, ci pensano gli infermieri ad impedirci di muoverci e difenderci. Pensate a cosa significa per chi è perseguitato da una voce che lo minaccia di morte, trovarsi chiuso in una stanza, in mezzo a gente che non conosce, impossibilitato a fuggire, a muoversi, ma anche solo a sentire musica, gridare, battere i piedi per terra, lasciare scorrere l’acqua, recitare una cantilena o fare qualsiasi altra cosa che possa aiutarlo a tenere lontana quella minaccia. Questo è quello che comunemente succede a quanti vengono ricoverati in una struttura psichiatrica.

Questi uomini e queste donne non sono credute. Non essendoci alcuna minaccia, tutte le loro azioni sono insensate e vanno vietate. La cura consiste nell’impedire alle persone di fare proprio ciò che può aiutarle. La psichiatria non prende in considerazione le indicazioni che vengono dalle sue vittime involontarie. Al contrario le giudica parte integrante della malattia che intende curare. Se Anna se ne sta in un angolo a ripetere la sua cantilena e tenere lontane le mani dell’uomo che la sporca, la tira via come la polizia ferroviaria  tira su Cesare ogni volta che si distende per terra nelle stazioni. Li strappa a quelli che ritiene azioni insensate e crisi deliranti, per annegarli in una flebo o farli sedere intorno a un tavolo a disegnare farfalle.

Cosa resta di un essere umano, se tutte le sue emozioni, le sue scelte, i suoi desideri, le sue azioni e i suoi pensieri sono considerati fantasie o deliri? Cosa resta di una persona se la sua storia e la sua vita sono narrate e gestite da altri?

Pensare che una teoria e una pratica che distrugge sistematicamente la soggettività delle persone e nega significato alle loro esperienze, possa aiutare qualcuno è pura follia. E’ una favola a cui dobbiamo credere per evitare di confrontarci con la paura e il terrore che imponiamo a questi uomini e donne rei soltanto di essere e comunicare quello che sono. Nessuna malattia li abita. Vivono, come ogni altro essere umano, in accordo con le proprie opinioni e per raggiungere dei fini. Il fatto che non le condividiamo o che ci sembrino impossibili, non ci può autorizzare a ritenerle frutto di fantasie deliranti. Dobbiamo loro lo stesso rispetto che avremmo voluto per Giordano Bruno o per Gallileo, per tutti coloro che espressero (o esprimeranno) una visione della realtà diversa e in contrasto con quella condivisa.

La sola via possibile verso il futuro nasce da divergenze e differenze come queste. Non possiamo lasciare che la nostra paura continui  a rallentare e a vanificare la nostra ricerca della verità. Se non altro perché in questa guerra non dichiarata, lasciamo sul campo i migliori fra noi. Quelli che osano (o sono scaraventati) oltre l’universo conosciuto.

C’è un’idea che attraversa tutti i movimenti di critica della psichiatria, sia di quella istituzionale che di quella istintiva dettata dall’istinto di sopravvivenza: se le persone fossero lasciate a se stesse e, cioè, fossero ascoltate e aiutate secondo le loro indicazioni e le conoscenze desunte direttamente dalle loro esperienze, quasi certamente esse arriverebbero a trovare la porta che permette il libero accesso e il ritorno dal mondo altro in cui si sono trovati catapultate. E’ quella che alcuni psichiatri chiamano guarigione spontanea e che, secondo BATESON, potrebbe costituire una regola se le persone non si scontrassero "...nella vita in famiglia o nell’assistenza ospedaliera, con circostanze tanto rozzamente sfavorevoli da non potersi salvare nemmeno con l’esperienza allucinatoria più ricca e meglio organizzata..." (BATESON G. , cit. in R.D.LAING 1980, pag. 118).

R.D.LAING si spinge ancora più in là. Ritenendo che la psichiatria stessa sia  parte del problema piuttosto che una soluzione,  propone che "Invece della cerimonia di degradazione dell’esame psichiatrico, della diagnosi e della prognosi, c’é bisogno, per coloro che sono pronti a ciò (e che, nella terminologia psichiatrica, sono spesso coloro che stanno per cadere nella schizofrenia) di un cerimoniale di iniziazione, nel corso del quale l’individuo venga guidato, con ogni legalità e con ogni incoraggiamento della società, nello spazio e nel tempo interiori, da persone che vi sono già state e ne hanno fatto ritorno. Dal punto di vista psichiatrico, ciò si tradurrebbe col dire che degli ex pazienti aiutino i futuri pazienti a diventare matti" (R.D.LAING 1980, pag. 128)

Queste idee, lungi dall’essere espressioni dell’atteggiamento rivoluzionario di qualche psichiatra eccentrico, sono patrimonio di tutti coloro che si sono trovati e si trovano ad essere oggetto delle attenzioni degli psichiatri. Non c’é paziente che non abbia pensato almeno una volta di non essere di fronte ad un medico o ad una cura, ma ad una vera e propria violenza. Non c’é paziente che non abbia sperimentato lo svilimento di tutte le sue opinioni. Non c’é paziente che non abbia pensato di fare da sè.

Oggi, mentre la psichiatria si ricompatta intorno a antiche parole d’ordine (le malattie mentali sono malattie del cervello), sempre più forte cresce la tendenza all’auto-organizzazione dei pazienti psichiatrici che cominciano a far sentire la loro voce anche, e soprattutto, nel campo delle  modalità con cui vengono definiti i loro comportamenti e del modo in cui vanno affrontate le loro esperienze.

Non è raro imbattersi, negli Stati Uniti come in Europa, in gruppi che si autodefiniscono survivors (sopravvissuti)e che difendono i  propri diritti rivendicando il fatto di non essere malati e il proprio diritto ad autoorganizzarsi per far fronte all’emergere delle proprie esperienze. La finalità principale di questi gruppi è quella espressa sopra da LAING, le persone vogliono aiutare e essere aiutate a diventare matte senza che questo significhi la loro fine come esseri umani o la possibilità di vivere di qua o di là della linea immaginaria che abbiamo tracciato fra realtà e fantasia.

La non coscienza di malattia, che è tuttora la bandiera dietro cui si nascondono i crimini più efferati contro l’umanità perpetrati nelle strutture psichiatriche di tutto il mondo, ridiventa per i sopravvissuti ciò che è sempre stato: la rivendicazione del proprio essere persone, soggetti, esseri umani. Oggi sappiamo che i milioni di nostri simili che hanno subito (e subiscono) la barbarie psichiatrica dei manicomi, descritti come incoscienti perché resistevano alla lobotomia come all’elettroshock, al coma insulinico come agli psicofarmaci, hanno lottato contro la loro distruzione fisica e psichica. Dovremmo tenere ciò sempre a mente quando ancora oggi sentiamo dire che i pazienti psichiatrici non si rendono conto di aver bisogno di cure. Dovremmo avere l’umiltà e l’umanità di imparare qualcosa dalla nostra storia.

In fondo basta solo un po' di buon senso per giungere alle conclusioni a cui è pervenuto M.A.J. ROMME, uno psichiatra sociale olandese, che da alcuni anni porta avanti, all’interno dell’establishment psichiatrico, un nuovo approccio alla questione delle voci. Nuovo e rivoluzionario solo per gli psichiatri stessi che si sono sempre rifiutati di imparare dall’esperienza, ostinandosi nel tentativo inumano di dimostrare le loro tesi.

L’idea nacque quasi per caso. ROMME notò che una sua paziente che sentiva le voci dall’età di 14 anni, che era stata ricoverata più volte e sottoposta a varie terapie farmacologiche e psicologiche, sembrava trovare qualche giovamento nella gestione delle voci da una teoria che aveva elaborato a partire dalla lettura del libro di JAYNES. Da bravo psichiatra pensò di utilizzare quella che allora gli sarà sembrata solo una strategia per tentare di spezzare l’isolamento in cui l’esperienza delle voci avevano costretto la sua paziente, facendole meditare sempre più sensatamente la possibilità del suicidio: avrebbe favorito il suo rapporto e il confronto con altre persone che sentivano le voci. ROMME e la sua paziente apparvero in un programma popolare della televisione olandese chiedendo alle persone che sentivano le voci di mettersi in contatto con loro.

Quello che successe dopo cambiò i piani previsti e aprì prospettive insperate. Come in ogni caso in cui ci mostriamo disponibili ad ascoltare quanto gli altri hanno da dire sulle loro esperienze, ROMME scoprì che non tutte le persone che sentono le voci sono considerate o curate come matte e, cosa sempre negata dalla psichiatria, era possibile convivere, evolversi e crescere anche nonostante, grazie e attraverso le voci. Accanto alle persone che, anche grazie all’opera di diseducazione psichiatrica, non riuscivano in alcun modo a capire e a dialogare con le proprie voci, un nutrito gruppo (150 su 450 contatti) si dichiararono capaci di gestire e di usare in maniera evolutiva il loro rapporto con le voci.

Dai questionari che ROMME inviò a coloro che avevano risposto all’invito risultò una realtà diversa da quella che i libri di psichiatria spacciano per verità scientifiche. Non solo, apparve chiaro che c’era qualcosa di perverso nel modo in cui fino ad allora egli stesso, da psichiatra, aveva considerato e trattato la questione.

20 di questi uditori che apparivano più sicuri del loro dialogo con le voci, furono invitati da ROMME a tenere una conferenza per una platea di 300 uditori. Dal confronto diretto con queste  esperienze, egli individuò una serie di costanti che sembravano presenti in quasi tutte le esperienze.

La prima e, a mio avviso, la più importante, quella relativa al contesto individuale e collettivo di riferimento in cui si svolge il dialogo con le voci. Quella che ci appare come un’esperienza eminentemente interiore subisce un’influenza decisiva dall’ambiente umano e culturale in cui si svolge. Se riusciamo a collocare l’esperienza che viviamo all’interno di un contesto culturale condiviso, il dialogo che ne consegue non ci farà paura, così come agli spiritisti non spaventa sentire la voce di un defunto. Quello che ci accade acquista la dimensione di un’esperienza conosciuta e entra a far parte integrante della nostra identità. Non solo. La nostra esperienza può essere socializzata, un po' come avviene a coloro che odono i messaggi della madonna e diventano referenti spirituali e meta di pellegrinaggi, acquistando il valore di una modalità di conoscenza e di esperienza con cui confrontarsi.

Nel prossimo capitolo traccerò alcune di queste esperienze di dialogo con le voci. Ciò che va chiarito è che la nostra risposta al messaggio delle voci, così come pure la reazione del contesto sociale in cui viviamo, è fondamentale nel determinare l’evoluzione dell’esperienza stessa. Essa porterà verso la santità se condivisa o verso la follia se rifiutata: verrà descritta come un dono se compresa o subita come una malattia se negata. L’incapacità di gestire le voci non è connaturata alla natura stessa di questa esperienza. Come per la gestione di qualsiasi relazione interumana, essa è legata a caratteristiche individuali, alla nostra storia e cultura, e alle aspettative dell’ambiente sociale e familiare che ci vive intorno.

Le storie degli uditori, così come apparvero a ROMME, descrivevano le tre possibili fasi che sembravano rilevanti nel gestire le voci, come segue:

  1. un episodio improvviso vissuto come spaventoso, in altre parole la fase in cui si sobbalza per la sorpresa/shock;

  2. un processo di selezione e comunicazione con le voci, cioé la fase di organizzazione;

  3. un periodo in cui si acquisisce un approccio più stabile, la cosiddetta fase di stabilizzazione.(M.A.J. ROMME  e A.D.M.A.C. ESHER 1988)

E’ chiaro che molto si gioca in quella prima fase in cui la sorpresa e la paura di quanto ci sta succedendo può determinare in noi una serie di scelte e comportamenti difficilmente controllabili. Del resto, di fronte all’emergere di queste voci,  non abbiamo una gamma infinita di alternative. Possiamo parlarne correndo il rischio di essere trattati da visionari e da matti (precisamente nello stesso modo in cui noi stessi tratteremmo chiunque altro ci rivelasse un’esperienza del genere); possiamo tacere e rimanere prigionieri della paura di essere scoperti; possiamo comunicare con loro cercando di capire cosa vogliono da noi.

Nessuna di queste ipotesi è praticabile in maniera assoluta. L’idea di tenere il segreto, ad esempio, non è facile e rischia di farci crescere dentro una serie di paure incontrollabili e invincibili. Come afferma un uditore:

Il difficile era che le persone non avrebbero mai ammesso di essere in contatto telepatico con me. All’inizio non osavo dirlo, ma dopo un po' lo feci. Le voci avevano una forte influenza sulla mia vita privata e questo mi faceva arrabbiare, per cui pensai: chi se ne importa, vengo e ti dico, tu sei in contatto telepatico con me, voglio che tu lo ammetta. Ma loro rispondevano sempre: no, non è così, davvero. E quindi pensai che avevano formato una sorta di cospirazione contro di me. (M.A.J. ROMME e A.D.M.A.C  ESHER 1988)

Del resto, in un caso come questo, siamo chiusi in un paradosso. Rivelare ad altri che sentiamo la loro voce o riusciamo a percepire, in qualche modo, i loro pensieri, ci espone in maniera diretta al loro giudizio e a quello psichiatrico. Di contro tacere può farci diventare via via così sospettosi da impedirci di fatto ogni possibilità di relazione interpersonale. Se non possiamo aspettarci che gli altri ci confermino quello che stiamo sentendo, difficilmente riusciremo ad evitare di pensare, di fronte alla chiarezza e alla nitidezza della nostra esperienza, che essi non abbiano qualcosa da  nasconderci.

Credo che non esista difficoltà maggiore di quella di riuscire a gestire un’esperienza che ci mette in relazione con le voci di persone a noi vicine. Essa ci manda in una confusione tale che difficilmente riusciamo ad evitare quelle incongruenze nei comportamenti che ci tradiscono agli occhi degli altri. In quei casi diventa difficile se non impossibile distinguere le cose dette da quelle udite da noi, con conseguente impasse relazionale.

A chi dobbiamo credere? Quale delle due voci dice la verità? La voce che mi trasmette telepaticamente i suoi pensieri o quella che nega questa trasmissione? La questione è ulteriormente complicata dalla natura delle relazioni che abbiamo con l’altro, già prima di sentire la sua voce. Le cose che ascolteremo telepaticamente saranno tanto più credibili quanto più noi riteniamo siano vere, e, cioè, corrispondenti all’idea che abbiamo di noi stessi o che pensiamo gli altri abbiano di noi.

Non è la voce a convincerci: essa conferma solo una verità che è già dentro di noi. La questione che si pone non può essere liquidata come una cosa immaginaria, perchè suggerita da una voce immaginaria. La questione è reale e va affrontata nella realtà del nostro rapporto con l’altro.

Chi si sente, del resto, di escludere che ci possa essere una comunicazione telepatica fra noi e gli altri di cui non abbiamo coscienza? E cosa ci impedisce di provare a riconoscere le voci che gli altri sentono come nostri pensieri? Invece di negare questa possibilità, andrebbe indagata fino in fondo la verità che è insita nelle cose che gli altri sentono da noi pur quando siamo sicuri di non aver aperto bocca. Questa ricerca comune con chi sente le voci, può permettere a noi di recuperare una serie di pensieri, sensazioni e emozioni e a loro di imparare a selezionare e a discernere fra i vari messaggi che percepiscono di noi.

Mi è successo, a volte, di essere accusato per cose che avrei detto a persone che non vedevo da giorni. La reazione istintiva è stata quella di negare tutto, tanto sembravano lontane da me e dal mio modo di pensare, le cose che avevano sentito. Allora non mi credi?!  Era stata la risposta della persona che mi accusava.

E’ facile credere alle voci che un altro sente, quando sono le voci degli altri. Se uno arriva e ti dice che ieri ha sentito la tua voce che lo invitava ad andare ad uccidere il suo psichiatra, certamente il tuo istinto è quello di negare la paternità di quel pensiero, affermando esplicitamente che si è inventato tutto o che ha immaginato di sentire la tua voce per giustificare un suo desiderio e una sua volontà interiori.

Esperienze di questo tipo capitano a tutti coloro che hanno la presunzione di essere capaci di accettare la realtà delle voci. E’ come se le voci ci mettessero alla prova di fronte alla persona che diciamo di saper, voler e poter capire.

La nostra reazione non ha niente da invidiare a quella degli psichiatri a orientamento psicoterapico, che in teoria affermano di essere disponibili a comprendere la verità dei vissuti altrui e che, in pratica, non accettano che questi possano metterli in alcun modo in discussione. Le descrizioni psichiatriche non sono dissimili a quelle dello psichiatra che fa una diagnosi di schizofrenia sulla base della presenza, nel comportamento della paziente, di riso immotivato. Fatto che gli fa presupporre che la persona senta delle voci e sia, quindi, allucinata. Neanche per un attimo quel psichiatra potrà accettare che in realtà si rida di lui. Lo psichiatria in questione tremava mentre poneva alla ragazza la domanda se si sentisse nervosa. La ragazza rideva, perché trovava buffo che quell’uomo tremante e ansioso chiedesse a lei se si sentisse nervosa,  ma il suo riso era, appunto, immotivato.

Per altro lo psichiatra non era meno umano o attento di altri suoi colleghi, come loro egli, in quel momento di orgasmo diagnostico, non era più un uomo ma era la norma, l’unica e sola verità possibile.

Se tu non parli con uno psichiatra, non significa che lo ritieni un uomo mediocre o insopportabile, ma che hai un atteggiamento autistico; se tiri un pugno all’infermiere che ti sbarra la porta del reparto e ti impedisce di uscire, non stai tentando di riacquistare la tua libertà, ma metti in opera un acting out; se rifiuti di essere malato non esprimi il fatto di sentirti bene così come sei, sei non cosciente, e così via.

Il destino e il futuro della ragazza non è determinato dal decorso di un’ipotetica malattia, dipende piuttosto dall’atteggiamento che ella terrà nei confronti delle cure e dei suoi curatori. Il problema non ha niente a che vedere con la cattiveria o il sadismo di certi psichiatri, è invece connaturato ad ogni pratica psichiatrica. L’essersi autoproclamati terapeuti e sapienti delle umane vicissitudini, pone gli psichiatri in un ruolo in cui ogni nostra resistenza al loro lavoro, non può che essere vissuto come un fatto insensato e malato. Come ci si può rifiutare alle cure che giurano guariscono tutte le angosce, le paure e zittiscono le voci?

Il fatto che la stragrande maggioranza dei pazienti psichiatrici rifiutino le diagnosi e le terapie psichiatriche, è sempre stato letto come prova della loro malattia, salvo dar loro ragione a distanza di alcune decenni. E se ci fosse invece qualcosa che non va in questa (incon)scienza psichiatrica?

Devo confessare che, cercando dentro di me e nel rapporto che avevo con l’uditore di turno, sono sempre arrivato a riconoscere quelle parole se non come mie, come mie possibilità o possibilità del nostro rapporto. Ogni volta la mia voce, udita dall’altro a mia insaputa, ha aggiunto qualcosa alla comprensione della  nostra relazione, del mio pensiero e dei suoi desideri. E’ diventata parte di noi e della nostra storia: non la mia voce, non la sua voce, ma un evento che ci tradisce entrambi.

Per inciso nessuno ha mai ucciso il suo psichiatra. Anche perché abbiamo imparato assieme a come farne a meno.

Comunicare con le voci e comunicare le voci è, nella pratica, l’unica strategia possibile per evitare che esse ci conducano alla follia o, peggio, alla psichiatria. L’esperienza dei 150 uditori di ROMME confermava che non serve (o addirittura è dannoso far finta di non sentire le voci), che è una fatica immane e inutile tentare di tenersi impegnati o distrarsi, che l’uso di sostanze legali o illegali non zittisce le voci ma comprime e desertifica il nostro mondo interiore.

"La strategia più fruttuosa descritta dalle persone che sentivano voci, era quella di selezionare le voci positive e sentire e parlare solo a loro, cercando di capirle".(M.A.J. ROMME, A.D.M.A.C ESCHER 1988)

Sembra l’uovo di Colombo, ma è una rivoluzione copernicana per chi, come gli psichiatri, tende a psichiatrizzare e patologizzare ogni esperienza umana. Sentire voci è come innamorarsi. Non sempre troviamo la persona giusta, a volte ci imbattiamo in qualche storia sbagliata che ci fa soffrire e ci porta ad agire in modi non ordinari. Nonostante ciò, non siamo ancora riusciti a definire l’innamoramento una forma di malattia mentale. Anche se niente vieta che esso finisca per diventarlo.

Le malattie mentali non vengono scoperte, nè tantomeno vengono debellate: semplicemente iniziano o smettono di essere considerate tali. Niente vieta che in un futuro prossimo l’innamoramento possa essere considerato alla stregua di un’epidemia di peste e che, al contrario, il sentire voci ritorni ad avere, ad esempio, la funzione sociale di controllo della mente e del corpo degli uomini che, secondo JAYNES, aveva all’origine della civiltà umana.

Del resto da anni la ricerca non solo psichiatrica, ma anche politica, bellica e pubblicitaria,  tenta di definire i meccanismi che regolano il complesso sistema della coscienza umana, alla scoperta di  modalità per influenzarne sempre più radicalmente il  funzionamento. Riuscire a convincere le persone a comportarsi in un certo modo, è impresa alquanto difficile e rischiosa. Ciononostante è necessario tanto per la psichiatria, quanto per la pubblicità, per lo Stato... che ciò accada.

In questa fase di democratizzazione, la psichiatria non mira più a  imporre la sua presenza, ma piuttosto a formare negli individui la coscienza della necessità della sua esistenza. Del resto per la psichiatria è sempre stato decisivo tentare di convincere i propri pazienti, non solo a comportarsi da malati, ma a sentirsi tali.

La selezione delle voci positive e il dialogo con esse, è patrimonio dell’esperienza mistica di ogni epoca e cultura. I cristiani lo chiamano discernimento, ed è, a mio avviso, il solo modo sensato di affrontare questa esperienza.  Si accetta la realtà di ciò che si sta sentendo e si sceglie fra ciò che viene da dio o dal demonio, che porta al bene o spinge al male, che ci aiuta o ci distrugge... Si opera cioè, al pari di ciò che facciamo per ogni comunicazione umana, la scelta a favore di ciò che troviamo credibile, accettabile, giusto...

Il discernimento è un fatto etico e non scientifico. I mistici non negano la realtà della loro esperienza, e così fanno anche i laici uditori di voci che riescono a gestirle. Semplicemente scelgono fra le varie opinioni e presenze quelle che ritengono affidabili, utili, comprensive... a seconda delle esigenze, della storia, del carattere di ognuno.

Per fare ciò è importante che la persona superi ogni pregiudizio circa la sua sanità mentale e la concretezza delle sue percezioni. Non solo occorre che chi le sta intorno impari ad avere rispetto di questa esperienza e l’aiuti a gestirla discernendo ciò che è bene da quello che è male. Bisogna  educare la nostra percezione: imparare ad aprire e a chiudere la comunicazione, difendere la propria soggettività e il proprio spazio interiore, discernere fra se e le voci.  

"Quanti sono riusciti a gestire le voci hanno sviluppato un certo tipo di equilibrio. Durante questo processo di stabilizzazione, l’individuo arriva a vedere le voci come parte di se stesso. Le voci sono percepite come parte della vita e hanno influenza positiva. In questa fase l’individuo è capace di scegliere se seguire le indicazioni delle voci o le sue proprie idee".(M.A.J. ROMME, A.D.M.A.C ESHER 1988)

Per quanto riguarda l’approccio psichiatrico, ROMME afferma chiaramente che, allo stato attuale, tutte le ipotesi circa la natura patologica di tale esperienza non sono produttive nè dal punto di vista della spiegazione che della gestione dei problemi che nascono con il sentire voci che altri non sentono.

Per ROMME gli operatori della salute mentale che vengono in contatto con chi sente le voci dovrebbero:

  1. Accettare che il paziente realmente senta le voci. Voci più potenti delle percezioni sensoriali.

  2. Cercare di capire il linguaggio che usano per descrivere il loro quadro di riferimento e il linguaggio che le voci usano per comunicare. (...)

  3. Aiutare il paziente a strutturare tempo e spazio nella gestione delle voci, poi costruire la comunicazione con le voci, in altre parole incoraggiare la distinzione tra le voci positive e le voci negative. (...)

  4. Stimolare il paziente ad incontrare altre persone e incoraggiarlo/la a leggere sul tema del sentire voci; questo può ridurre sia il tabù che l’isolamento. (M.A.J. ROMME, A.D.M.A.C ESHER 1988)

 

Dovrebbero cioè smettere di essere quelli che sono e di fare quello che sono delegati a fare.

Resta il fatto che i 150 uditori di ROMME, così come i mistici, hanno trovato la loro strada da soli, con passione e tenacia. Essi hanno corso il rischio di essere esclusi per sempre dalla loro vita affettiva e sociale, e non mi pare che ci sia nessuna ragione concreta per rischiare di nuovo la propria esistenza affidandosi alle cure psichiatriche.

Del resto la nostra capacità di gestione delle nostre funzioni vitali e della nostra vita sociale, si acquista lentamente con tentativi ed errori, e spesso a prezzo di gravi sofferenze. Non c’è nessun motivo di liberarsi delle voci solo perché soffriamo a non saperle gestire. Così come chiarisce un uditore:

"Se cadi dalla bicicletta non la butti via, ma continui mettendoti in giusto rapporto con essa. Ti inventi una bellissima passeggiata in bicicletta come puoi, in te stesso. Alla fine mi sento di non essere né il vincitore né il perdente, ma è come se si sia aggiunta un’altra dimensione alla mia vita. Una dimensione che ce la fai a gestire e che alla fine può essere utile". (M.AJ. ROMME, A.D.M.A.C ESHER 1988)

Nel prossimo capitolo parleremo di alcune di questi passeggeri dell’ignoto.