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MALATI DI NIENTE
manuale minimo di sopravvivenza psichiatrica
INDICE 1.Dedica 3.Introduzione 5.Malati di niente
  2.Manuale di autodifesa 4.Modelli legali 6.Bibliografia



MANUALE DI AUTODIFESA

CONTRO GLI AB/USI PSICHIATRICI

breve guida all'auto-organizzazione




La possibilità di difenderci dalla psichiatria è anche questione di organizzazione. Una volta aver chiarito a noi stessi il ruolo, la natura e i mezzi della sua violenza, dobbiamo in qualche modo organizzare una resistenza attiva alle sue pratiche e rilanciare la possibilità di un suo superamento.

Il confronto con la psichiatria va aperto a tutti i livelli in cui opera. Quando pensiamo ad organizzarci dobbiamo pensare a costituire delle realtà capaci di impedire (o rendere ardui) i ricoveri coatti, ma anche di smascherare l'inconsistenza scientifica e il valore metaforico delle malattie e delle terapie psichiatriche. Realtà che assistano legalmente quanti si vogliano opporre alla loro interdizione legale, ma che servano anche da punto di riferimento e di auto-organizzazione per quanti vivono una guerra quotidiana, personale e iniqua con la psichiatria.

L'organizzazione di gruppi antipsichiatrici ha un duplice valore. Permette di avere (e di mettere) a disposizione risorse per quanti vogliano concretamente liberarsi dalla coazione psichiatrica. Incrina il potere psichiatrico che si fonda sull'assunto della diversità ontologica dei suoi pazienti e sull'impossibilità di dar loro credito. Costituire gruppi che credono a quanto i pazienti dicono e cercano di realizzare e comunicare ciò che pensano, aldilà della loro consistenza numerica, è un modo efficace di mettere in crisi la leggittimità dell'intervento psichiatrico. Sembra ovvio, ma nessuno di noi può essere sottratto alla sua vita se è (e rimane) significativo per qualcuno, se è riconosciuto e apprezzato per quello che fa e dice, se è appoggiato, se qualcuno condivide o rispetta i suoi punti di vista. Se grido da solo in una piazza sono un matto, se lo facciamo in tanti è una manifestazione di libero pensiero. Torneremo su questo.

Adesso mi preme puntualizzare l'ambiguità implicita in ogni nostra azione a favore, per o con i cosiddetti pazienti psichiatrici. In genere giochiamo con lo stesso mazzo di carte con cui gioca la psichiatria, credendo di poterne ribaltare il significato. Ma il mazzo è truccato e noi spesso abbiamo riaffermato in pratica ciò che, in teoria, negavamo.

E' la storia dell'esperienza basagliana in Italia, ridotta oggi a gestire il nuovo sistema di controllo psichiatrico delle nostre emozioni e dei nostri comportamenti. Ma anche la storia di quanti, fra chi ha scelto di fare a meno della psichiatria, si sono lasciati tentare dalla possibilità di costruire luoghi per rispondere a domande mai poste o di organizzare scuole di pensiero, competenze, specialismi.

Il pregiudizio che si abbia che fare con una categoria di persone caratterizzata dalla presenza nel loro modo di essere, pensare o comportarsi di qualcosa di irriducibile alla normalità, che hanno bisogno perciò di relazioni, persone o luoghi specifici adatti a loro, attraversa la storia del nostro rapporto con le esperienze e le persone non ordinarie. Nessuno ne è esente, pochi ne sono consapevoli.

Non si spiegherebbe se no la sincera veemenza con cui gli psichiatri alternativi lottano contro la riapertura dei manicomi, pur avendone riprodotto la logica e i fini. Oppure certe affermazioni e pratiche "antipsichiatriche" che propongono terapie alternative e luoghi terapeutici adatti per intraprendere il viaggio interiore dentro se stessi.

Sento di lottare ogni giorno contro questo pregiudizio, evitando di pensare e di agire come se veramente esistesse un noi e un loro. Intanto perchè non riesco a identificarmi con coloro che condividono la mia percezione della realtà (ivi compresi gli psichiatri), poi perchè non riesco a intravedere alcuna somiglianza o identità sostanziale nel modo di pensare, di essere o di percepire di coloro che hanno subito il giudizio psichiatrico. Non esiste una categoria di persone che abbia come caratteristica la normalità, così come non esiste una categoria di persone che incarni l'antinorma.

La malattia mentale non è una condizione ma una carriera sociale. Due pazienti psichiatrici non sono più simili fra di loro di quanto lo siano due psichiatri. Le somiglianze nel loro modo di agire e reagire derivano dalle norme sociali che regolano la loro posizione e i loro rapporti con la realtà sociale in cui vivono. Alcuni fatti che ci sembrano caratteristici della malattia mentale, sono in realtà caratteristici del tipo di risposta istituzionale che diamo ai conflitti interumani e alla peculiarità della teoria e pratica psichiatrica. Quando, ad esempio, ironizziamo che è tipico dei matti negare di esserlo, ciò può voler dire che c'è qualcosa di sbagliato in questo giudizio. Non è sensato saltare alla conclusione che l'essere in disaccordo con il proprio psichiatra o la propria famiglia sia segno di malattia mentale. Diciamo che è tipico o caratteristico degli esseri umani che non condividono la nostra visione delle cose imputare ciò a qualcosa di diverso dalla nostra volontà e dalla nostra libera scelta. Non possiamo credere che le persone pensino davvero quello che dicono, non possiamo accettarlo e, per evitare il penoso compito di negarlo, neghiamo che abbiano potuto dirlo o pensarlo liberamente.

Rifiutare la diagnosi psichiatrica non è una caratteristica tipica dei malati di mente, ma un istinto di sopravvivenza innato in ogni essere umano. Paradossalmente sarebbe patologico il contrario.

Credo che dovremmo liberarci dalla necessità di elaborare una teoria omnicomprensiva del modo di sentire e di essere degli esseri umani. Innanzitutto perchè ciò è probabilmente impossibile, poi perchè, nel definirli, i sentimenti diventano cose e le persone smettono di essere tali.

Il nostro fine potrebbe essere solo quello di rendere possibili le persone. Astenerci dal definirle, proteggerle, spiegarle o usarle come prova della nostra normalità. Accettare e riconoscere la leggittimità del loro modo di pensare e di essere. Cosa fare? Cosa evitare? E come?

Le reti nonpsichiatriche



Uno dei sentimenti più comuni che ci assale di fronte alle immagini dei luoghi psichiatrici, con la loro violenza e il loro squallore, è che occorra ospitare quegli uomini e quelle donne in luoghi più umani e decenti. Ci sembra rivoluzionario, ma è lo stesso motivo che mosse gli psichiatri a costruire i manicomi, per strappare i malati di mente dai lebbrosari, dai carceri e dalla strada. Come in un gioco di scatole cinesi, liberati da una scatola, ci troviamo prigionieri di un'altra scatola. Luoghi e spazi sempre più ristretti fino a che il nostro corpo coinciderà con le pareti della scatola. Fino a che saremo solo scatole vuote riempite dalle idee, dalle scelte, dalle emozioni altrui.

L'idea di creare case particolari dove ospitare le persone, luoghi ad hoc dove permettere che si divertano, cooperative speciali per farle lavorare... non è una conseguenza di una qualche diversità propria di quelle persone, ma il tentativo di creare per loro uno statuto speciale per giustificare l'esistenza degli specialisti che se ne occupano. Passa l'idea che un matto non possa abitare una casa ordinaria, sostenere i ritmi di un lavoro normale, divertirsi con ciò che usualmente le persone comuni usano a questo scopo. Il che equivale a dire che chi non sa (o non vuole) abitare una casa, sostenere il lavoro o divertirsi in maniera ordinaria, può a tutti gli effetti essere definito un matto.

Credo che le nostre organizzazioni nonpsichiatriche debbano evitare di creare luoghi. Evitare in qualunque modo di duplicare gli spazi di vita individuale e collettiva in cui normalmente viviamo. L'idea è quella di usare e trasformare la realtà, non di subirne o doppiarne la violenza.

Per fare questo occorre che spostiamo la nostra attenzione dalle vittime ai mandanti, dalla follia alla normalità, da loro a noi. Nella realtà c'è già tutto quello che ci serve: dobbiamo solo accettare di usarlo.

Non penso a gruppi che si sostituiscano alla psichiatria nell'ascolto o nella interpretazione di quanto le persone dicono. O, peggio ancora, che sostituiscano le persone che abbiamo accanto, cercando di essere la nostra famiglia, il nostro datore di lavoro, il nostro amico... Che ciò accada è altra cosa. Ha a che fare con la nostra natura umana.

Penso ad un gruppo nonpsichiatrico come una rete di persone e occasioni ordinarie che permettano di muoversi e comunicare senza fare (o aver) paura. Un gruppo di persone che pratica il confronto attivo con i comportamenti e le esperienze straordinarie e testimonia la possibilità di uno scambio, di una tolleranza e di una dialettica fra i possibili mondi della percezione umana.

La possibilità di creare reti di questo tipo non è collegata solo all'assunzione di una posizione critica rispetto alla psichiatria e neanche all'accettazione della sfida antipsichiatrica. Le reti nonpsichiatriche sono organismi viventi, fatte di persone con una loro storia, uno status e una carriera sociale. La possibilità che esse funzionino da ripetitori o amplificatori delle ragioni della follia, deriva in gran parte dal ruolo e dalla posizione che le persone che le compongono hanno nel contesto umano e sociale in cui vivono.

Chi non ama il luogo in cui vive e le persone con cui condivide la quotidianità, difficilmente riuscirà a trasmettere alcunchè di se stesso o di altri. Nessuna emozione passerà attraverso di lui. Il suo stare dalla parte di chi rischia un ricovero psichiatrico sarà solo un altro elemento che riguarda il suo modo di essere e il ruolo che ha scelto (o a cui l'hanno obbligato). Il suo impegno sarà solo un pretesto per rivendicare la sua diversità.

Se prendiamo il caso dell'uomo che urla. Non sempre egli viene lasciato da solo. A volte scatta il riconoscimento, la solidarietà, la condivisione, aldilà della sensatezza di ciò che egli dice, fa o vuole. Un gruppo nonpsichiatrico è un modo di allargare la normale alleanza che scatta fra le persone, anche in aree e rispetto ad esperienze che sono state scacciate fuori dall'ordinaria visione del mondo.

Lì dove la psichiatria impone il silenzio, il gruppo svela, rivela, scopre, realizza il delirio come una forma di conoscenza del mondo e di sè, come un valore, una verità, anche quando sofferta, inquietante, impensabile o divina.

Per far ciò la sola cosa che ci serve è il nostro corpo e la nostra mente. Tutto il resto sta già nella realtà quotidiana: basta usarlo.

Di fronte ad Ivan che abita in un albergo in costruzione, privo di mezzi di sussistenza, così come da ordini dei suoi superiori non umani, possiamo offrirgli di ospitarlo, chiedere al comune di fornirgli un alloggio, cercarlo noi stessi, fare colletta, attivare la mensa scolastica o procurargli dei buoni pasto... trattare con lui come con chiunque si trovi in quella situazione precaria. Anche l'indifferenza è un sentimento ordinario accettabile, rispetto a chi interpreta questa sua scelta come frutto di malattia e ritiene, a priori, che il suo bisogno sia quello di smettere di sentire e di obbedire agli ordini degli esseri con cui comunica, di lasciare la casa in costruzione ed essere ricoverato in un luogo adatto al suo caso.

Un'azione nonpsichiatrica non sindaca sulle ragioni di Ivan. Propone risposte concrete a domande esplicite. Se Ivan non accetta di usare le nostre case e il nostro cibo, se non accetta cioè di sedare le nostre ansie e le nostre paure, rispettiamo le sue ragioni e cerchiamo con lui il modo migliore per realizzare il suo compito, rivendicando il suo diritto a pensarla come vuole e a fare di sè e della sua vita ciò che crede più opportuno. Certo può sbagliare e pentirsi di quello che oggi sta scegliendo, ma chi è immune all'errore e chi non obbedisce ad alcun ordine?

Se Ivan se ne sta al freddo fuori dal nostro controllo e dalla nostra pietà, ci impone un confronto fra la nostra visione delle cose e la sua. Non uno scontro. Non c'è in Ivan neanche la lontana parvenza di quella idea ossessiva che sembra muovere noi. Lui non vuole imporre il suo punto di vista, nè vuole che noi abbandoniamo le nostre sicure e segrete case. Vuole solo poter vivere secondo ciò che sente, crede o sceglie.

Un gruppo nonpsichiatrico non solo è una rete che gli permette di sopravvivere in una realtà che, escludendo la sua mente, esclude anche il suo corpo. Un matto si ha paura di servirlo, farlo entrare in un bar, ospitarlo in pensione, affittargli una casa, dargli in sposa una figlia, assumerlo per un lavoro, invitarlo ad una festa, sedervisi accanto sul treno, stringergli una mano... Ivan rischia di essere distrutto a meno che non accetti le cure. Se si cura avrà anche il cibo, qualcuno gli affitterà una casa e gli offrirà forse anche un lavoro. Deve solo smettere di obbedire alle sue voci e imparare ad obbedire ai medici. Un gruppo nonpsichiatrico è anche un gruppo di persone che difende con lui la sua scelta e il suo diritto all'esistenza.

Ho già detto, e non lo ripeterò mai abbastanza, che uno degli strumenti più efficaci che ha la psichiatria per obbligare le persone alle sue cure è il consenso e la delega che noi le concediamo. Nessuno potrebbe essere diagnosticato o ricoverato contro la sua volontà se non ci fossero mandanti. Nessuno psichiatra si occuperebbe di Ivan se nessuno di noi si sentisse disturbato dal suo comportamento, inquietato dal suo modo di vivere, impaurito da ciò che può fare. Se affrontassimo questa impasse così come comunemente affrontiamo i conflitti e le divergenze che nascono fra di noi, non ci sarebbe spazio per la psichiatria. Se dessimo valore, pur non condividendolo, a ciò che Ivan fa, se ci confrontassimo con lui e gli chiedessimo di spiegare o ci spiegassimo, probabilmente non ne avremmo più paura e considereremmo sensata la sua scelta (almeno quanto riteniamo sensato abitare un casa o obbedire alle leggi penali).

Nella mia esperienza (cfr. G.Bucalo 1993, Dietro ogni scemo c'è un villaggio. Itinerari per fare a meno della psichiatria) il superamento della psichiatria è sempre nato da un farne a meno unilaterale e senza condizioni. Se non si è disposti ad ascoltare Ivan, non si potrà evitare di ascoltare noi. Il nostro prendere posizione, non solo rispetto all'eventualità di curare Ivan contro la sua volontà, ma anche rispetto a come considerare quello che dice, fa o pensa, riporta Ivan ad essere e rimanere un essere reale, la cui volontà e libertà di scelta non può essere azzerata o aggirata.

Il problema allora non sarà più come convincere Ivan a curarsi, ma come si convive e si interagisce con lui e le sue scelte.

Le soluzioni a questo quesito sono infinite e riguardano le persone coinvolte. Trovarle non riguarda il gruppo. Ripeto: l'unica nostra finalità è rendere possibile ciò.

Il Telefono Viola



Da alcuni anni il movimento nonpsichiatrico si è dotato di questo strumento di tutela dei diritti degli utenti dei servizi psichiatrici. Una linea telefonica che mira a raccogliere le denunce di abusi psichiatrici e sostenere quanti vogliano intraprendere un'azione legale contro di essi.

L'idea non è originale. Ricalca esperienze analoghe che si sono radicate nel tessuto civile rappresentando validi strumenti di autotutela collettiva. In campo psichiatrico, tale iniziativa ha però una valenza culturale rivoluzionaria. Affermare, infatti, che gli utenti psichiatrici abbiano dei diritti, significa esplicitamente affermare che essi hanno volontà, soggettività e capacità di scelta.

Non parlo di un'opinione, ma di un fatto giuridicamente sancito. Da quasi 20 anni esiste una normativa che dice che gli accertamenti e i trattamenti psichiatrici sono volontari, riconoscendo così il diritto ai cittadini di scegliere se diventare pazienti psichiatrici e se accettare di essere trattati come tali.

Il Telefono Viola nasce per tutelare questi diritti e praticare queste norme.

Per organizzare un telefono viola occorre:

1. costituire il gruppo degli operatori. Si può scegliere di costituire un'associazione legale ma ciò non è strettamente necessario. Uno statuto legale permette di accedere a finanziamenti pubblici, ma in quanto a rappresentatività non vi è alcuna differenza con un'associazione di fatto, fondata cioè su un libero accordo dei soci (cfr. Libero accesso a chiunque nel manicomio di Bisceglie, in Appendici)
2. reperire tutti i riferimenti legislativi che regolano il settore psichiatrico e quello dei diritti degli utenti dei servizi sanitari, sia nazionale che regionale, sia in campo penale che civile;
3. reperire una sede, meglio se autofinanziata, e installare la linea telefonica con annessa segreteria;
4. contattare e prendere accordi con uno o più avvocati per consulenze legali. Meglio se questi sono motivati e organici al telefono, magari con un giorno di presenza fisso presso la sede. Il grande luminare del foro può essere di lustro all'iniziativa, ma ha poco effetto pratico. Consiglio avvocati anche di poca esperienza ma disponibili ad attivarsi nella ricerca di fonti e norme che possano esserci utili nella difesa legale dagli abusi psichiatrici;
5. contattare il Giudice Tutelare del territorio in cui si ha sede. Con lui si avrà a che fare spesso. Egli va informato di ogni atto o richiesta che elaboriamo in favore o per conto dei ricoverati coatti;
6. contattare il Sindaco del Comune in cui si ha sede e concordare con lui (o chi per lui) la possibilità di accedere alle informazioni riguardanti i T.S.O. da lui firmati. Si può proporre che essi ci vengano notificati contestualmente alla notifica obbligatoria al Giudice Tutelare;
7. concordare con le autorità sanitarie le modalità di accesso presso i reparti psichiatrici e le strutture private convenzionate. Non dobbiamo chiedere (nè abbiamo bisogno di) alcuna autorizzazione. Come cittadini noi siamo già autorizzati ad entrare nelle strutture sanitarie secondo i tempi e le modalità previste per le visite. Dobbiamo solo concordare i giorni della nostra presenza e organizzarci per garantire all'interno dei reparti una presenza stabile;
8. elaborare insieme ai legali strumenti di tutela preventivi (Procura, Testamento Psichiatrico...) avendo cura di coinvolgere o comunque informare il Giudice Tutelare;
9. organizzare dei turni di ascolto diretto e apertura della sede sociale per ricevere segnalazioni e denunce e funzionare da punto di riferimento per chi ci contatta;
10. organizzare una pubblicizzazione adeguata e costante dell'iniziativa privilegiando il contatto diretto con gli utenti nei luoghi di cura (ambulatori psichiatrici, case famiglia, reparti...);
Questi solo alcuni dei suggerimenti pratici che mi sento di dare.

Esiste invece una serie di questioni aperte che val la pena affrontare. Prima fra tutte il problema se usare o meno degli psichiatri come consulenti. Esistono una serie di situazioni, in cui ci si viene a trovare gestendo un'attività di tutela, che suggeriscono la possibilità di usare psichiatri per tentare di mitigare o superare una situazione di coazione psichiatrica. Situazioni in cui non abbiamo alcun appiglio legale per agire. Un esempio per tutti. Gigi si reca al pronto soccorso perchè sente che il suo stomaco sta per esplodere. I medici che lo accolgono decidono che non si può credere a quello che dice, che è confuso, delirante e, quindi, malato di mente. Chiamano una consulenza psichiatrica e Gigi viene ricoverato in T.S.O. presso un reparto psichiatrico. Immaginiamo che, da un punto di vista formale, tutti i passaggi siano stati rispettati (i medici hanno certificato e motivato la loro proposta, il Sindaco ha emesso il provvedimento e il Giudice Tutelare l'ha convalidato). Gigi non ha nessuna possibilità di sottrarsi alle cure se non dimostrare che non era in condizioni di alterazione tali da essere necessario ricoverarlo. Chi può accertare questo? Solo un altro psichiatra. Accade così che, nella nostra urgenza di salvare Gigi, usiamo la scienza psichiatrica per tentare di invalidare se stessa. E invece molto probabilmente la rafforziamo.

Non possiamo sperare di agire in questo campo senza sporcarci le mani con dei compromessi, ma possiamo evitare di rafforzare il mostro che diciamo di voler neutralizzare. Come? Nell'esempio che ho fatto, facendo sottoscrivere a Gigi una dichiarazione di accettazione delle cure, magari esplicitando quali fra le terapie psichiatriche egli ritenga più consone a lui. E' un compromesso, ma fa venir meno uno dei presupposti fondanti il trattamento sanitario obbligatorio.

Accettare le cure è un compromesso ma soprattutto è un atto di sopravvivenza individuale. Accettare la consulenza tecnica di uno psichiatra è, al contrario, un rafforzarne, sulle spalle della persona, il potere e il diritto di decidere della sua esistenza. Nel primo caso la resa è un'accusa della natura violenta e inumana della psichiatria. Nell'altro si rafforza l'idea che ci sia una psichiatria buona e una cattiva, una che diagnostica per rinchiudere e una per liberare.

Il pericolo sempre in agguato è che possiamo essere noi a scegliere il compromesso per il bene altrui. Non siamo delegati per prendere iniziativa sulla pelle degli altri. Dobbiamo rispettare la loro testarda ostinazione a considerarsi esseri umani e a pretendere di essere trattati come persone, sempre.

Ci sono un'infinità di altre situazioni in cui la mediazione psichiatrica ci permetterebbe, forse, di evitare danni ulteriori. Si pensi al proscioglimento per infermità di mente e al manicomio criminale o all'interdizione civile. Ma in ogni caso credo si debba cercare di trovare strategie che evitino di confermare la natura del potere psichiatrico. In questo consiste del resto la nostra sfida, nel trovare strade per fare a meno della psichiatria.

Possono giungerci richieste di aiuto non in linea con quanto pensiamo. Alberto ci può contattare, ad esempio, dicendo che non vuole assumere farmaci via endovena, ma che li preferisce in pillole, chiedendo di far valere il suo diritto di scelta nei riguardi dei medici del reparto. Credo che in questi, come in altri casi, noi dobbiamo tutelare il principio che sia la persona a scegliere ciò che vuole o non vuole fare o assumere. Uscire dalla logica psichiatrica vuol dire anche smettere di pensare che una scelta consapevole è solo quella che coincide con le nostre. Non dobbiamo misconoscere che l'essere in terapia psichiatrica comprime in maniera evidente la libertà di movimento e di pensiero delle persone, ma non possiamo usare questo fatto per invalidare tutte le opinioni psichiatriche che gli utenti esprimono.

Il lavoro di tutela si nutre di paradossi di questo genere. Solo il confronto, la ricerca, la verifica degli errori possono man mano portarci a trovare una via d'uscita all'inferno che abbiamo creato.
Uno dei paradossi più tipici in cui ci troviamo quando cerchiamo di praticare il diritto delle persone di non essere ricoverate contro la loro volontà o di essere dimesse se lo chiedono, è quello del ragazzo internato per aver picchiato qualcuno o aver danneggiato beni propri o altrui. Come si fa a dimetterlo, si argomenta, e mandarlo a casa dove l'aspetta una madre minuta e gracile che subisce le sue angherie? Dobbiamo rispettare la sua volontà?

Io credo di sì. Credo anzi che chi voglia tentare di costituire un Telefono Viola o un gruppo di tutela legale, deve scegliere a priori di far valere i diritti sanciti dalla legge di chiunque, indipendentemente dalla valutazione morale, dal grado di condivisione, dalla simpatia che ci ispira la persona e il suo comportamento. Esistono tali e tanti pregiudizi, paure, luoghi comuni, che finiremmo per condividere con gli psichiatri la necessità di tenere sotto controllo le persone. Nella maggiorparte dei casi, gli psichiatri non abusano dei loro utenti per puro sadismo. Essi praticano e propagano in buona fede tutta una serie di giudizi e pregiudizi che poi confermano la necessità di quello che fanno.

Accettare questo a priori è la sola difesa che abbiamo dalla nostra normalità. Non dobbiamo mai pensare di essere diversi dagli psichiatri. Non dobbiamno mai pensare di non poterlo diventare. L'unico vaccino che conosco è il rispetto ad oltranza del mondo altrui. Il che non vuol dire necessariamente condividerlo, ma semplicemente considerarlo reale, come reali sono le parole, i pensieri, le visioni e i comportamenti che ha.

La difesa legale dei matti è cosa controversa, perchè a differenza di altri soggetti considerati deboli, su di loro pesa anche il pregiudizio di essere pericolosi per se stessi e per gli altri. Questa ambiguità rende ogni nostra azione di denuncia precaria, se non dal punto di vista legale, sicuramente da quello culturale che influenza notevolmente le scelte di chi (autorità giudiziaria, giudice tutelare...) deve decidere della fondatezza dell'abuso subito e della necessità di punirne i colpevoli.

Molti abusi vengono giustificati dal fatto che gli operatori hanno agito in stato di necessità, altri sono invalidati perchè non esistono parametri certi circa ciò che sia la malattia mentale e cosa possa essere definita una cura, altri vengono coperti dalla constazione che l'irregolarità ha permesso comunque di assicurare alle cure un soggetto potenzialmente pericoloso... La stragrande maggioranza delle denunce viene archiviata perchè il paziente psichiatrico non ha alcuna credibilità.

La presenza in reparto, così come la promozione di campagne specifiche su singole strutture o singole pratiche, serve appunto per creare riscontri che sostengano le ragioni della vittima. Aspettare in sede le denunce non permette quasi mai, riferendosi spesso a abusi già consumati, di poter attivare alcuna forma di tutela legale. Occorre prevenire la possibilità di essere coartati ed essere presenti lì e quando ciò accade.

Nessuna denucia è inutile. Raccogliendo una serie di segnalazioni riguardanti abusi subiti in certi servizi e da certi operatori, si può comunque aprire un'azione legale basandosi sulle testimonianze multiple raccolte. Se non è una prova certa, sicuramente una denuncia collettiva ha un suo peso nell'attivare una verifica giudiziaria dei fatti. (cfr. A. Papuzzi 1977, Portami su quello che canta. Processo a uno psichiatra)

In atto sono operanti in Italia le seguenti sedi del Telefono Viola o di gruppi di tutela:
Telefono Viola Roma
c/o Libreria Anomalia, via dei Campani 73
06-4467375

Telefono Viola Bologna
piazza di Porta S.Stefano 1
051-342000

Telefono Viola Napoli
via Pasquale Scura 77
081-5510674

Telefono Viola Catania
c/o VI Consiglio di Quartiere, via Sardo 1
095-455060

Telefono Viola Genova
p.zza Embriaci 5 int. 13
010-255797

Telefono Viola Milano
c/o Ambulatorio medico popolare, via dei Transiti 28
02-2846009

Gruppo d'iniziativa nonpsichiatrica Tradate (VA)
c/o Centro Sociale Kinesis ,via Carducci 3
0331-811662

Telefono CCDU Milano
via Bizet 11 Pioltello
02-92140561

Telefono CCDU Catania
095-317495


I gruppi che hanno dato vita a queste esperienze sono molto etereogenei. Li unisce il tentativo di pensare e praticare il superamento delle pratiche psichiatriche. Esistono contraddizioni e differenze anche sostanziali nelle strategie dei gruppi. Essi rappresentano in ogni caso quanto di più avanzato esista in atto sul terreno del riconoscimento dei diritti della follia e del diritto alla follia. (cfr. anche G.Antonucci, A. Coppola 1995, Il Telefono Viola contro i metodi della psichiatria, e N.Bermani, appendice allo stesso libro) .